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S. Filippo Neri

Aforisma

"La santità sta in tre dita di spazio. Tutta l'importanza sta nel mortificare il parlare, la stima di se stesso e la propria opinione".

La vita

Nell'anno 1515 nacque Filippo nella città di Firenze il 22 di luglio; suo padre si chiamava Francesco Neri e sua madre Lucrezia Soldi. Fu allevato con ottimi costumi, e il padre Francesco non ebbe mai da lamentarsi perché Filippo gli obbediva in tutto, come obbediva fedelmente alla sua cara mamma. Accadde che Lucrezia morì, e Filippo ebbe la matrigna a prendersi cura di lui, ma allo stesso modo come per i suoi genitori, il bambino onorava talmente la sua madre adottiva che ella lo amava come se fosse stato figlio suo. Aveva un carattere così amabile con tutti che era soprannominato dai compagni “Pippo buono”. Filippo si esercitò fin da piccolo nell'orazione, mediante la quale acquistò un grande orrore delle cose mondane.

Giunto all'età di 18 anni, suo padre lo mandò a san Germano nel regno di Napoli da suo zio, chiamato Romolo, che faceva il mercante; rimase là per due anni, e nonostante lo zio volesse far ereditare a Filippo tutta la sua grossa fortuna, il giovane partì per Roma. Nella città eterna fu ospitato da un gentiluomo fiorentino, chiamato Galeotto Caccia, e rimase lì per molti anni conducendo una vita molto aspra e rigorosa: talvolta stava per tre giorni interi completamente digiuno del cibo, e la sua camera era così povera che teneva i suoi panni sopra una fune che attraversava la stanza.

Filippo volle inoltre interessarsi sempre di più delle cose celesti, così volle aggiungere allo studio delle Lettere umane, che aveva appreso a Firenze, lo studio della Teologia e della Filosofia dai grandi maestri e padri agostiniani di Roma. Studiato che ebbe per alcuni anni, risolse di darsi in tutto e per tutto a quella scienza che apprendeva dal Crocifisso; perciò conduceva una vita ritirata, andando frequentemente, anche di notte, alle sette Chiese e prolungando lì le sue orazioni. Seguitò questo modo di vivere fino all'età di 29 anni.

Tra le numerose grazie che Filippo ricevette da Dio, una delle principali fu la mirabile palpitazione del suo cuore, che gli provocò una non meno meravigliosa rottura delle costole. Un giorno, infatti, mentre pregava lo Spirito Santo di concedergli i suoi doni in abbondanza, fu subito preso da un così grande fuoco d'amore che non potendolo sopportare si lasciò cadere in terra; e come uno che cerca refrigerio, Filippo si slacciò davanti al petto per placare quel grande ardore che sentiva come una fiamma bruciante. Dopo esser stato così per qualche tempo, levandosi in piedi si sentì ripieno di un'insolita allegrezza, e immediatamente in tutto il suo corpo cominciò ad avvertire come un forte tremore. Mettendosi poi la mano al petto, trovò dalla parte del cuore un gonfiore della grandezza di un pugno, causato dalla rottura di due costole, che non gli procurava alcun dolore o fastidio, né in quel momento né mai in tutta la sua vita. Nello stesso punto, nonostante Filippo fosse già in piena salute e mai preso dalla malinconia, gli cominciò la palpitazione miracolosa del cuore che gli durò per tutta la vita. Questa palpitazione gli procurava un tremore violento soprattutto quando faceva qualche azione spirituale, al punto che gli sembrava che il cuore volesse uscirgli dal petto. Sentiva inoltre un calore così forte che persino nei periodi più freddi d'inverno, benché fosse anziano, bisognava anche a mezzanotte aprirgli le finestre, per temperare il calore che sentiva; perciò questa palpitazione fu poi ritenuta del tutto miracolosa.

Avendo in questo modo trascorso Filippo una vita ritirata e devota, si sentì chiamato da Dio all'aiuto delle anime, per le quali si diede con fervore affinché si convertissero. Quindi iniziò a predicare per le piazze, per le botteghe e per le scuole, dove mettendosi a ragionare di cose spirituali con ogni sorta di persone, in breve le guadagnava a Dio. A questo esercizio aggiunse le opere di misericordia corporale, visitando gli infermi negli ospedali e servendoli in tutto quello di cui avevano bisogno; specialmente aveva cura delle anime degli agonizzanti, vicino ai quali stava interi giorni e intere notti. Per lo stesso fine di aiutare il prossimo istituì nel 1548, assieme ad alcuni compagni, la Confraternita della santissima Trinità, a beneficio dei pellegrini e degli ammalati.

Ma Dio aveva destinato Filippo alla conversione delle anime, e poiché il santo non avrebbe potuto eseguire perfettamente tale missione rimanendo nello stato laico, il Signore permise che il confessore di Filippo, padre Persiano Rosa, persuadesse il giovane a diventare Sacerdote e Confessore.

Così, preso il sacro Ordine, Filippo andò ad abitare a san Girolamo della Carità, e qui indusse molte persone a frequentare i Sacramenti, stando egli stesso nel confessionale quasi di continuo; inoltre, permise che dopo pranzo molti dei suoi penitenti potessero raggiungerlo in camera. Qui stava seduto sopra il suo letto e, circondato dalle persone, parlava loro delle cose di Dio con gran fervore, attirando in questo modo alla vita devota molti nobili ed altri di umili origini, i quali divennero uomini di grande pietà. Durante questi anni, in Filippo crebbe il desiderio di partire come missionario nelle Indie, per seminare la Fede e morire martire se Dio l'avesse voluto. Ma confidando questo suo pensiero ad un santo padre dell'ordine cistercense, egli, illuminato dalla Grazia, gli rispose che le sue Indie dovevano essere a Roma, e che qui Dio si sarebbe meglio servito di lui. Abbandonato il desiderio delle Indie, Filippo volle dunque dedicarsi alla propagazione della Fede nella città di Roma. Si impegnò quindi nella conversione degli ebrei, riconducendo molti delle principali e più ricche famiglie alla Fede cattolica; così come convertì alcuni eretici. Anzi, per opporsi alla falsità degli eretici, Filippo comandò a Cesare Baronio, suo figlio spirituale e poi futuro Cardinale della Chiesa, di comporre gli Annali ecclesiastici. Il fatto che quest'opera si voglia poi attribuire a san Filippo piuttosto che a Baronio, è perché lo stesso autore nella prefazione dell'ottavo libro degli Annali fa chiara testimonianza, professando con un lungo discorso, che è stato san Filippo l'ideatore degli Annali.

Stabilitosi san Filippo in Roma, e crescendo il numero dei suoi figli spirituali, non essendo la sua camera abbastanza grande per ricevere tanta gente, nell'anno 1558 trasferì l'esercizio di quei ragionamenti e conferenze in un luogo più capace, dove ogni giorno dopo pranzo si radunavano insieme a discorrere di cose spirituali. Da qui ebbe principio l'abitudine di riunirsi per discorsi e orazioni serali, come l'usanza di andare agli ospedali dividendo i suoi penitenti in tre gruppi. Inoltre, per salvaguardare l'anima dei suoi figli spirituali, san Filippo andava con loro più volte all'anno e nei periodi di maggior pericolo (come il carnevale) alle sette Chiese.

Questi santi e lodevoli esercizi, che dovevano suscitare amore e benevolenza, in alcune persone perverse furono cagione d'invidia e seminario di calunnie. Incominciarono dunque a diffamare prima segretamente, e poi apertamente tutte le opere di san Filippo. Fra questi il principale fu uno dei Deputati di san Girolamo della Carità, a cui si aggiunsero due religiosi apostati, che sotto l'abito clericale vivevano in quella casa; essi tramavano di far allontanare san Filippo da san Girolamo facendogli ogni sorta di affronto, in sacrestia come in casa: ma si stancarono prima loro di perseguitarlo, che non il Santo di sopportare le loro malefatte. Suscitarono persino una grave persecuzione contro l'andata alle sette Chiese, e crebbe talmente il rumore che il Vicario del Papa fece chiamare Filippo, e con parole aspre gli fece una severa ammonizione, minacciando di farlo incarcerare se non desisteva dai suoi esercizi. Infine, dopo numerosi travagli, cessò anche questa dura prova, perché il Pontefice, che era Paolo IV, conosciuta l'innocenza di Filippo, gli mandò a dire che seguitasse pure a fare tutto quello che prima faceva. Dopo alcuni anni, insorse un'altra persecuzione; alcuni, sotto pretesto di zelo, riferirono al Papa, allora san Pio V, che in san Girolamo si dicevano molte leggerezze nei ragionamenti, e si raccontavano molti esempi di poca attendibilità. Ma il Papa mandò due Padri di san Domenico affinché osservassero minuziosamente i ritrovi di Filippo e dei suoi figli spirituali, e così fu da essi certificato che nei sermoni non avevano trovato cosa alcuna che fosse slegata da una somma pietà e dottrina; anzi, quei due Padri cominciarono anch'essi ad andare ogni giorno a sentire i discorsi di Filippo. Molte altre persecuzioni ed ingiurie furono fatte a Filippo, che per brevità tralasceremo.

Nell'anno 1564, i Fiorentini conobbero la preziosità degli esercizi di Filippo, e con quanta prudenza e destrezza egli governasse le anime dei suoi figli; perciò, fecero di tutto affinché Filippo prendesse in carico la chiesa di san Giovanni, e così dovette fare sotto comando del Papa. Perciò, il Santo mandò alcuni dei suoi figli ad abitare in san Giovanni affinché iniziassero anche lì gli esercizi che si facevano a san Girolamo, con molta riconoscenza da parte di tutti i Fiorentini. Esortato poi con insistenza dai suoi figli spirituali, i quali vedevano che quel modo di vivere era di gran beneficio per la Chiesa, Filippo giudicò bene di provvedere a un luogo per tali esercizi, che fosse suo proprio, e qui poter fondare una Congregazione e continuare l'opera incominciata. Nell'anno 1575 ottenne la Chiesa di santa Maria in Vallicella, dove eresse con autorità apostolica la Congregazione dell'Oratorio, formata da preti secolari. Poi gettata giù la vecchia, iniziò a fabbricare una nuova Chiesa, e vi pose la prima pietra colui che poi diventò Papa Leone XI; qui i soggetti della Congregazione cominciarono a celebrare i divini uffici, e nel 1583 Filippo lasciò la sua dimora a san Girolamo per trasferirsi a Vallicella.

Siccome Filippo era sempre stato considerato come capo e fondatore della Congregazione, di comune accordo fu eletto Preposto della stessa; il Santo, con alcuni suoi compagni, fece poi delle costituzioni, le quali, dopo essere state praticate per oltre 30 anni, ricevettero l'approvazione da Paolo V.

Diremo qualcuna delle regole che il Santo stabilì nella sua Congregazione: innanzitutto volle che ogni giorno, premessa una lezione volgare di qualche libro spirituale, si facessero quattro ragionamenti, l'uno dopo l'altro, di circa mezz'ora ciascuno; dopo i quali si cantasse qualche lode spirituale a sollievo degli ascoltatori; per finire si facesse un po' di orazione per i bisogni della Santa Chiesa. Comandò poi a quelli che parlavano che non entrassero in materie scolastiche, né cercassero concetti elevati, ma con stile semplice e facile dicessero cose utili ed edificanti. Ad alcuni degli oratori assegnò le vite dei Santi, ad altri la storia della Chiesa, ad altri i dialoghi di san Gregorio e diverse materie devote che disponessero chi ascoltava al pentimento; esortava tutti in generale che si ingegnassero a dimostrare la bellezza delle virtù e la bruttezza dei vizi, la ricompensa eterna dei Giusti e le pene eterne dei peccatori impenitenti; specialmente che infiammassero i loro animi di un sincero amor di Dio e desiderio della gloria del Paradiso, e desiderava che si raccontasse sempre l'esempio di qualche Santo, affinché la dottrina rimanesse impressa nelle menti degli uditori. Nei giorni festivi, dopo il Vespro, fatto un sermone in Chiesa, era solito andare coi suoi figli spirituali in qualche giardino, o altro luogo simile, dove si facevano alcune conferenze proponendo egli stesso od altri da lui preparati alcune materie di spirito, interrogandoli. Quindi iniziò l'abitudine di andare nelle feste dopo la Resurrezione al monte di san Onofrio, luogo aperto e dall'incantevole vista che sovrasta tutta la città di Roma, e d'estate in qualche Chiesa per ripararsi dal caldo afoso; in questi luoghi, cantata una lode spirituale e fatto recitare un breve sermone imparato a memoria da un fanciullo, erano soliti fare due brevi ragionamenti, con la musica ad intervallare e a finire. Durante le feste invernali, cioè dal primo giorno di Novembre fino a Pasqua, la sera nell'Oratorio, dopo la solita orazione, cantate le litanie e l'antifona mariana, secondo i tempi, e recitato similmente un sermone a memoria da un fanciullo, era solito fare un ragionamento di mezz'ora con musica prima e dopo. Insieme con la parola di Dio, il Santo accompagnò l'esercizio dell'orazione quotidiana: infatti, ordinò che di sera, quando si apriva l'Oratorio, tutti coloro che volevano entrare, eccettuate le donne, dovevano fare mezz'ora di orazione mentale, dovevano recitare le Litanie e poi si raccomandassero i bisogni pubblici e privati, a seconda delle occorrenze. Ma il lunedì, il mercoledì e il venerdì, al posto delle Litanie, ordinò che si facesse la disciplina e infine si cantasse l'Antifona mariana a seconda dei tempi.

Sintetizzata la Congregazione in questi termini, san Filippo volle che l'unico vincolo che avrebbe dovuto unire i membri soggetti alla Congregazione – giacché come preti secolari essi non sono legati ad alcun voto o promessa – fosse la carità. Raccomandò inoltre l'obbedienza, cosa che i suoi compagni praticarono con tanta perfezione che non vi era cosa difficile che non fosse subito eseguita in modo eccellente. Infine, volle che i soggetti della Congregazione vivessero a proprie spese, e contribuissero, secondo la loro possibilità, per il vitto che la Congregazione offriva loro; che l'abito fosse quello che usano i semplici preti secolari; che fuggissero ogni sorta di singolarità od ostentazione in tutte le cose loro.

Fino ad ora, si è parlato delle opere del nostro Santo, che egli fece prima nello stato laico e poi come Sacerdote, ma ora diremo in particolare riguardo le singolarissime virtù di san Filippo. Egli aveva una tale carità ed amore verso Dio, che la fiamma che gli ardeva nell'anima ridondava anche nel corpo, fino al punto che certe volte mentre recitava l'uffizio, o dopo la Messa, o in altre azioni spirituali, gli si vedevano dagli occhi e dal volto uscire come scintille di fuoco, e tale ardore era così potente che lo faceva qualche volta svenire; altre volte, quando andava insieme con altri, era così sovrastato da questa fiamma che prorompendo inavvertitamente nelle parole dell'Apostolo diceva “Cupio”, per poi subito sopprimere il resto della sentenza, e taceva “dissolvi et esse cum Christo”. A volte restava così assorto e con gli occhi così fissi nel guardare il Cielo, che a chi lo osservava pareva di vedere il glorioso san Martino in atto di pregare. Era devotissimo oltre modo del Santissimo Sacramento dell'altare. Poi nel dire la Messa era così grande la devozione che sentiva che prima di andarvi, mentre gli altri hanno bisogno di raccogliersi per celebrare devotamente, egli aveva bisogno di distrarsi per poterla dire senza andare in estasi. Nel proseguire la Messa, quando arrivava all'Offertorio, era tale la gioia che sentiva nel cuore che molte volte la mano gli tremava di modo che quasi non poteva mettere il vino nel calice, se prima non appoggiava fortemente il braccio all'altare. Nell'alzare il Santissimo Sacramento gli accadeva spesso di non poter ritirare le braccia per diverso tempo, e a volte elevandosi da terra per diversi centimetri. Negli ultimi anni della sua vita, per potere con più libertà di spirito trattare col Signore, per consiglio di uomini dotti e illuminati nelle cose di Dio, ottenne licenza da Gregorio XIV di celebrare in una cappelletta vicina alla sua stanza, dove, arrivato all'Agnus Dei, il chierico lo lasciava chiudendo le porte, per lasciare san Filippo trattenersi molto tempo, due o tre ore, prima di comunicarsi, con indicibile consolazione e profitto dell'anima sua.

Grandissima era la devozione che aveva per la Passione del Salvatore, così che quando aveva occasione di parlarne, o di leggerne qualche cosa, in particolare per la settimana santa nella Messa, non poteva contenersi e prorompeva in un dirotto pianto. Un giorno, mentre parlava della Passione, fu sorpreso da uno straordinario fervore che lo fece piangere a tal punto da non poter riprendere fiato, e fu necessario che lasciasse la Chiesa: questa fu la ragione per la quale, alcuni anni prima della sua morte, abbandonò di discorrere in pubblico. Del nome dolcissimo di Gesù fu così devoto che nel pronunciarlo sentiva una soavità inestimabile, e lo nominava spessissimo, così come gli piaceva molto recitare il Credo; il Pater noster lo recitava con tanta attenzione, che quando lo incominciava sembrava non dovesse più finire. Indicibile poi fu la devozione per la gloriosa Vergine Maria, confermando di aver ricevuto così tante grazie da Lei che era solito chiamarla “il suo amore”. Onorò poi con grande affetto tutti i Santi, leggendo di continuo le loro vite. Quello che poi fu ammirabile in lui, è che non solo aveva l'amor di Dio e la devozione in se stesso, ma per singolare privilegio del Signore li comunicava anche a quelli che trattavano con lui. Ebbe il dono delle lacrime e della tenerezza di cuore, per la quale se faceva orazione, spesso piangeva; se diceva Messa, per la quantità di lacrime molte volte doveva fermarsi; ed era così continuo in lui il piangere che fu ritenuto un miracolo che non abbia perduta la vista.

Il principale mezzo col quale acquistò questo Santo lo speciale amore e la particolare carità verso Dio, fu l'esercizio dell'orazione, per il quale ebbe così grande affetto che tutti gli esercizi che ordinò nella sua Congregazione tendevano a questo fine; è per questo motivo che volle che la Congregazione si chiamasse “la Congregazione dell'Oratorio”. E benché fosse tanto abituato nella preghiera che si poteva ritenere fosse incessante, aveva comunque le sue ore determinare per l'orazione. D'estate ogni giorno, mattina e sera, quando non era impedito da affari gravi o da qualche opera di carità, si ritirava nel punto più alto della casa dove poteva vedere il Cielo e la campagna, e lì trascorreva molte ore in orazione. D'inverno poi faceva orazione poco dopo l'Ave Maria fino alle due o tre di notte, essendo solito a dormire non più di quattro o cinque ore al giorno. All'orazione aggiungeva la lezione dei libri sacri, e specialmente leggeva di continuo la Sacra Scrittura, e aveva particolare piacere nel leggere le lettere di san Paolo. Leggeva frequentemente le vite dei Santi e consigliava i suoi confratelli e figli spirituali a fare lo stesso, dicendo: “non vi è cosa più a proposito di questa per eccitare e nutrire lo spirito”; dava ancora per compito che si leggero quei libri scritti da sant'Agostino, da san Gregorio, da san Bernardo e dagli altri Santi.

Dall'amore così grande verso Dio nascevano in lui desideri ardentissimi di carità verso il prossimo, infatti era instancabile nella conversione delle anime, per le quali era così ripieno di destrezza e di delicatezza verso i poveri peccatori che loro stessi erano stupiti dalle sue squisite maniere nel condurli al Signore. Se gli capitavano peccatori grandi e mal abituati, da principio ricordava loro solamente di astenersi dai peccati mortali, per poi, a poco a poco, lavorarli fino a condurli ad uno stato di cristiana perfezione. Con la stessa dolcezza convertì un giovane molto dissoluto, col pregarlo che dicesse ogni giorno sette volte la Salve Regina e poi baciasse la terra dicendo: “Domani potrei esser morto”; facendo questo, il giovane in breve cambiò vita, e dopo quattordici anni morì con segni di grandissima devozione. Questo modo di fare di san Filippo ricondusse un numero quasi infinito di peccatori verso la strada del Cielo, ed essi stessi, riconoscendogli il merito della loro salvezza, dicevano: “sia benedetto il giorno e l'ora che io conobbi il padre Filippo”. Per lo stesso fine di condurre a sé gli animi dei penitenti, teneva di continuo la sua camera aperta a tutti; molti andavano da lui ogni giorno, e alcuni addirittura vi andarono per anni di mattina e di sera. Nel guidare la gioventù e mantenerla lontana dai peccati fu talmente abile che ebbe ben pochi pari al suo confronto; si intratteneva spesso con i giovani, e li trattava con molta dolcezza e familiarità. Quando accadeva che alcuni di loro non si presentassero alla Confessione, o all'Oratorio, li mandava a chiamare, facendo sì che ricominciassero con maggior fervore di prima.

Quando si ammalava qualcuno dei suoi penitenti, san Filippo andava di continuo a visitarli, facendo orazione nella loro stessa camera e facendo sì che pregassero anche i circostanti; ed era solito quando si aggravavano, non lasciarli mai da soli finché non fossero morti o non fossero migliorati. Nel consolare gli agonizzanti e levar loro le tentazioni che in quegli istanti il demonio suscita, fu davvero ammirabile: quando accorse da un certo Sebastiano, essendo egli vicino alla morte e tentato da molti demoni, Filippo gli pose le mani sul capo e gli disse: “Non dubitare”; al che, tutto confortato, Sebastiano esultò dicendo: “Il Padre Filippo scaccia via i demoni! O virtù grande del padre Filippo! Viva Cristo, viva Filippo, per cui sono stato liberato dall'inferno; viva l'Oratorio!” e così, cantando alcune lodi spirituali, e nominando i cori degli Angeli, rese lo spirito a Dio. Quasi lo stesso capitò a molti altri, e non c'era persona tentata o afflitta che ricorresse a lui senza riceverne aiuto e conforto.

San Filippo non solo cercò di aiutare il prossimo nell'anima, ma fin dove potevano arrivare le sue forze aiutò tutti nelle loro necessità temporali. Aiutava non solamente le singole persone, ma famiglie intere, specialmente faceva elemosine alle donne sole ed ai carcerati, mandando ogni settimana del denaro e aiuti di prima necessità. Dio aiutò le sue opere con numerosi miracoli. Andando san Filippo una notte a trovare una persona, e volendo per strada sfuggire a una carrozza, cadde in un'altissima fossa, e miracolosamente vi uscì senza essersi fatto alcun male. Un'altra volta un Angelo sotto le sembianze di un povero gli domandò elemosina, e mentre il Santo gli dava tutto il denaro che aveva con sé, l'Angelo disse: “Io volevo vedere quello che avresti fatto” e subito scomparve; da quella volta, san Filippo si infervorò ancora di più nell'esercizio della carità verso il prossimo, tant'è che nessuno veniva da lui congedato senza che ne avesse ricevuto benefici.

All'amore verso Dio e verso il prossimo, Filippo ebbe il dono della Verginità. Innanzitutto il suo candore era tale che gli riluceva nel volto, e in particolare negli occhi; inoltre il suo corpo emanava un profumo particolare, ed egli riconosceva il vizio contrario alla purezza sentendo lui stesso un odore sgradevole. Molti poi, quando san Filippo metteva loro la mano sul capo, si sentivano liberati dalle tentazioni carnali; e non solo il tatto delle sue mani, ma anche le cose che adoperava facevano sparire le tentazioni. Persino il nome solo di Filippo, per grazia tutta speciale, allontanava dalle persone le seduzioni carnali. Il demonio tentò più volte di intaccare il candore di san Filippo, ma egli, invocando la Madonna e assistito dalla Grazia divina, ne uscì sempre vittorioso, fuggendo specialmente con gran cautela tutte le occasioni di peccato; per cui era solito dire: “Nella guerra del senso, vincono i poltroni!” cioè quelli che fuggono prontamente i pericoli, senza così doverli affrontare.

San Filippo mortificò il suo corpo con l'astinenza; ed oltre a quello che fece in gioventù, come si è detto sopra, una volta sacerdote prese l'abitudine di non prendere nulla da mangiare la mattina, o al massimo di rifocillarsi con poco pane e poco vino, senza neppure sedersi. La sera poi si cibava di insalata e un uovo, massimo due, aggiungendovi qualche volta della frutta; spesso invece si accontentava di una sola di queste cose. Raramente mangiava latticini o minestre, rare volte il pesce e ancor più rare la carne, se non per infermità o per far compagnia a qualche forestiere. Nel bere era così sobrio, che si poteva dire bevesse acqua avvinata piuttosto che vino annacquato, e quel poco di vino lo beveva svanito. Fu così parco nel mangiare, che non si capiva come egli potesse sostentarsi con così poco, ed infine la gente cominciò a credere che vivesse più per virtù del Santissimo Sacramento, che prendeva ogni giorno, piuttosto che per il cibo corporale.

All'astinenza il Santo aggiunse il distacco dai beni terreni, che se anche non fece voto di povertà, tenne i propri affetti lontanissimi da ogni sorta di proprio interesse, perciò rifiutò la ricchezza dello zio, l'eredità del padre e i beni della sorella; non volle ricevere lo stipendio che si dava ai sacerdoti, né accettò mai che gli si desse proprietà o lasciti di valore. Il medesimo distaccamento lo consigliò anche ai suoi confratelli, avvisandoli che non chiedessero mai offerte o elemosine: “Se volete far frutto nelle anime, lasciate stare le borse”. In egual maniera desiderava che anche i suoi penitenti fossero distaccati dalla roba, ed era solito dire: “Chi vuole roba, non avrà mai spirito” o “Si guardi il giovane dalla carne, e il vecchio dall'avarizia, e saremo santi”. Certe volte affermava, parlando per esperienza, che fosse più facile convertire i peccatori dediti alle cose dei sensi, che non quelli dominati dall'interesse, perciò chiamava l'avarizia “la peste dell'anima”. Allo stesso modo aborriva ogni sorta di cariche o di onori che potessero metterlo in grado superiore ad altri: non volle accettare né la dignità di vescovo, né la dignità cardinalizia offertagli da papa Gregorio XIV e da Clemente VIII. Essendo stato eletto preposto perpetuo della sua Congregazione, volle rinunciare anche a questo, due anni prima della sua morte. La stessa alienazione dagli onori san Filippo la desiderava per i suoi, avendo spesso in bocca le parole della Scrittura: “Vanitas vanitatum, et omnia vanitas”. Ad un giovane suo penitente, nominato Francesco Zazzara, il quale studiava Legge per progredire negli studi e far fortuna nella Curia, il Santo prese a dirgli: “O beato te! Tu studi adesso, poi fatto avvocato comincerai a guadagnare, potresti un giorno entrare in prelatura...” e mano a mano gli elencava tutte quelle grandezze e dignità che occupavano la mente del giovane, replicando di nuovo: “O beato te!”. E il giovane pensava che Filippo dicesse per davvero, ma alla fine il Santo gli si avvicinò e gli disse: “E poi?”. Rimasero così impresse queste due parole nel cuore del giovane, che tornato a casa, non potendosi levare quelle parole di mente, decise di voltare tutti i suoi disegni e pensieri a Dio, entrando nella Congregazione, dove morì lasciando bellissimi esempi di virtù.

Quest'avversione delle prosperità e grandezze del mondo, Filippo l'aveva per la sua profondissima umiltà: egli aveva un disprezzo tale di se stesso, che come san Francesco si riteneva il maggiore peccatore del mondo, e lo affermava sinceramente, per cui era solito fare ogni giorno una preghiera a Dio dicendo: “Signore, guardatevi da me oggi, che vi tradirò, e farò tutto il male del mondo, se voi non mi aiutate” o “La piaga del costato di Gesù Cristo è grande, ma se Dio non mi tenesse le mani in capo, la farei maggiore”. Quando una persona nobile lo visitò mentre era infermo, lo supplicò di chiedere a Dio che lo guarisse e lo facesse vivere lunghi anni almeno per utile loro e per il bene degli altri, ma san Filippo rispose con grande umiltà: “Non mi è caduto mai in pensiero di poter giovare a nessuno”. Non volle mai che lo si chiamasse Padre Preposto o Superiore, ma volle essere chiamato semplicemente Padre, gustando l'effetto amoroso che quel nome produceva. Allo stesso modo, quando qualcuno lo chiamava Fondatore della Congregazione, rispondeva: “Sappiate che io non ebbi mai in pensiero di fare tal cosa” e attribuiva tutto alla santissima Vergine.

Congiunse all'umiltà la pazienza, mostrandola soprattutto nelle infermità che ogni anno, a causa delle numerose fatiche a cui si sottoponeva, gli duravano anche due mesi, e ricevette persino quattro volte l'estrema Unzione. In quelle indisposizioni, fu sempre visto con la faccia allegra e la fronte serena, non diede mai segno di dolore e non parlava mai del suo male se non con i medici; ascoltava sempre le confessioni dei suoi penitenti, a meno che gli fosse impedito; parlava sempre con la sua solita voce sonora non cambiando mai il tono come fanno gli infermi. Era poi ritenuto un miracolo che, pur con l'avanzare degli anni, quando si alzava dal letto riprendeva ordinariamente tutti i suoi impegni senza trascorrere nemmeno un piccolo periodo di convalescenza. Tale era la sua pazienza e mansuetudine, che nessuno mai lo vide andare in collera, quasi non sapesse adirarsi.

Oltre a tutte queste virtù con le quali il Signore volle adornare l'anima del santo Filippo, vi furono numerosissimi altri doni che la bontà divina concesse al suo umile servitore. Innanzitutto volle innalzarlo a penetrare i segreti delle divine grandezze con estasi e rapimenti mirabili, che per tutta la vita ebbe di continuo; fu favorito da Dio di molte visioni ed apparizioni celesti, poté vedere la bellezza delle anime di molti, ornate della grazia di Dio, e fra queste vide sant'Ignazio di Loyola, tutto risplendente di luce. Ebbe la grazia di vedere molte anime dei suoi amici e penitenti andare in Paradiso. A queste visioni si aggiunse il dono della profezia, vedeva le cose assenti come se fossero state presenti: vide uno che stava per morire senza essersi confessato e comandò a Baronio che andasse subito ad aiutarlo; vide una donna che stava per morire all'ospedale degli incurabili e vi mandò Francesco Maria Tarugi a confortarla; vide stando a Roma quel che faceva un suo penitente in un lontano paese, e per lettera lo avvertì del pericolo grande in cui si trovava... di casi simili, se ne possono raccontare un'infinità. Conosceva inoltre il cuore dei suoi penitenti, e ne vedeva così chiaramente l'anima che, come se leggesse un libro, sapeva esattamente se avevano fatta l'orazione, quali fossero i peccati che dovevano confessare, che cosa passava loro in mente. Gli stessi penitenti conoscevano che a san Filippo tutto era noto, perciò, se sapevano di avere un rimorso di coscienza, quando stavano con lui gli sembrava di stare nel fuoco; al contrario, chi gli si avvicinava con la coscienza pura, gli sembrava di essere in Paradiso. Infine, san Filippo operò numerosi miracoli per grazia di Dio, e liberò quasi un numero infinito di persone da diverse infermità; perfino ricevette la grazia di resuscitare un morto, come diffusamente si narra nella sua Vita compilata dai processi fatti per la sua canonizzazione.

Avvicinandosi ormai Filippo al termine della sua vita, un anno prima di morire, nel mese di aprile, si ammalò di febbre, e durandogli diciassette giorni fu preso da così forti dolori che in pochi giorni si ridusse a non avere più polso, né prendeva più cibo. Stavano così tutti aspettando la morte del loro caro Padre, quando all'improvviso apparve la Vergine santissima, e san Filippo si alzò all'istante per abbracciarla; finita la visione, subito guarì e la mattina seguente si levò dal letto raccomandando a tutti, più del solito, la devozione alla gloriosa Vergine. L'anno seguente, nel 1595, si ammalò un'altra volta l'ultimo giorno del mese di marzo, e la febbre gli durò tutto il mese di aprile; ma domandando egli la grazia a Dio di poter celebrare la Messa del giorno dei santi Filippo e Giacomo, suoi avvocati, la mattina si trovò liberato dalla febbre e guarito, così da poter celebrare la Messa come desiderava.

Il 12 di maggio fu sorpreso da un profluvio di sangue per bocca, così grande, che rimasto senza polso si pensava che ad ogni momento passasse da questa vita; perciò Cesare Baronio, allora superiore della Congregazione, gli diede l'Olio santo; ma riavutosi dopo questo Sacramento, Federigo Cardinale Borromeo lo comunicò per Viatico di propria mano. Prese Filippo con tanta devozione e con tale affetto questo Sacramento, che tutti quelli che assistevano, erano profondamente commossi. Il mattino seguente, d'un tratto Filippo ritrovò la salute, e mandò di buon'ora diversi religiosi a far celebrare delle Messe. Da quel giorno, fino al 25 maggio, Filippo rimase sempre in salute, e senza infermità alcuna; ogni mattina celebrava la Messa, udiva le confessioni, comunicava e recitava l'Uffizio; perciò tutti ritenevano che il Santo dovesse vivere ancora per qualche anno.

Giunta la solennità del Corpus Domini, che in quell'anno cadde il 25 maggio, ascoltò le confessioni dei suoi penitenti, recitò le sue Ore, celebrò nella cappella privata la santa Messa, durante la quale cantò il Gloria in excelsis Deo con grandissimo spirito e allegrezza; finita la Messa, passò la giornata in esercizi spirituali e nel farsi leggere le vite dei Santi. Alle tre di notte entrò nel suo letto perfettamente sano, ma egli, sapendo esser giunta l'ora della sua morte, disse; “Bisogna finalmente morire” e poco dopo domandò che ora fosse, e quando gli fu risposto che erano le tre suonate, soggiunse: “Tre, e tre sei, e poi ce ne andremo”. Infatti alle sei circa di notte, il Santo entrò in agonia circondato dai suoi figli, e placidamente, all'età di 80 anni, rese l'anima a Dio. Cinque anni dopo la sua morte, cioè nell'anno 1600, fu da Paolo V ascritto nel catalogo dei Beati, e nell'anno 1622 da Gregorio XV fu solennemente canonizzato con i santi Ignazio, Francesco Saverio, Isidoro Agricoltore e con la vergine santa Teresa.

Riflessione

Approfittiamo delle istruzioni che san Filippo Neri ci lascia, registrate nel libro della sua vita. Immaginiamo che il Santo parli a ciascuno di noi, e ci dica dal Cielo quelle stesse parole che ripeteva spesso ai suoi figli spirituali: “Figliuoli miei, siate umili, e state bassi; amatevi, e sopportatevi l'un l'altro; mortificatevi nelle cose piccole, se volete essere in stato di mortificarvi nelle grandi; siate devoti alla Madonna”. Conserviamo queste sue parole nel cuore e cerchiamo di metterle anche in pratica tramite la sua intercessione, al fine di conseguirne il frutto, che è la santificazione delle anime nostre e la vita eterna.


Veronica Tribbia