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Festa del Santissimo Sacramento

Non si può negare, che il Santissimo Sacramento dell'altare non sia il più grande, il più sublime ed eccellente fra tutti gli altri Sacramenti lasciati alla sua Chiesa da Gesù Cristo, come strumenti della sua grazia per il nostro spirituale profitto. È doveroso che a Lui rendiamo perenni grazie di un beneficio così incomparabile, trattando quei divini misteri, che sono in esso racchiusi, con la maggior riverenza e devozione. Negli altri Sacramenti si comunica la grazia a coloro che degnamente li ricevono: in questo vi è realmente la Fonte della stessa grazia, e per conseguenza questa vi si comunica in maggior abbondanza. Gli altri sono doni di Dio; in questo vi è l'Autore di tutti i Sacramenti, e di ogni nostro bene. Gli altri servono come mezzi per giungere a Dio, ma questo è il fine di tutti; perché tutta la santità causata dagli altri è una disposizione per accostarsi a ricevere con maggior purezza l'Eucaristia. Veneriamolo pertanto con ogni più religioso culto ed onore, in questo giorno in cui si celebra la solennità, giacché la Chiesa cattolica esponendo con decoro e maestà alle pubbliche adorazioni questo Augustissimo Sacramento, ne ricorda in questo giorno la prima istituzione, e ne rende a lui tutto l'onore possibile e gloria.

È vero che Gesù Cristo prima d'incamminarsi alla morte istituì nell'ultima cena fatta coi suoi discepoli questo eccelso mistero, onde sembrerebbe essere conveniente rinnovarne la memoria nel giorno del giovedì santo: ma siccome la Chiesa nostra madre in quei giorni di passione è tutta occupata nella considerazione dell'eccessivo amor di Gesù nel sacrificare tutto se stesso a pro dell'uomo, così riservò ad altro tempo la ricordanza di un così gran beneficio. Scelse il giorno del giovedì dopo l'ottava dello Spirito Santo, per il cui mezzo furono illuminati i fedeli e fu loro spiegata la grandezza di questo mistero, perciò in questo tempo appunto si deve recare tutto l'amore e gloria che gli appartiene.

Intorno a ciò che si deve credere secondo la dottrina della fede di questo Sacramento, dobbiamo

sapere che per virtù delle parole dette dal sacro e legittimo Ministro al tempo della consacrazione, (parole stesse pronunziate da Cristo nell'ultima cena), il pane composto di puro frumento senz'altra nessuna mescolanza, si converte realmente nel vero corpo di Gesù Cristo, e il vino, che deve essere altresì composto di puri grappoli d'uva, si converte nel suo prezioso sangue, di maniera che sotto le specie del pane vi è Gesù Cristo vivo e vero unito alla divinità, Dio ed uomo, e sotto le specie del vino vi è tutto lo stesso Gesù Cristo dopo la consacrazione; perciò chi riceve il corpo, riceve anche il sangue, e chi prende il calice riceve il sangue e corpo di Gesù Cristo, essendo Egli tutto intero sotto tutte e due le specie.

Da questo primo articolo di fede ne segue l'altro, cioè che fatta la consacrazione, nell'ostia non vi è più vestigio alcuno della sostanza del pane, e nel calice non v'è più ombra della sostanza del vino: perché l'una e l'altra sostanza si è convertita nella sostanza della carne e del sangue di nostro Signore. Or per darci ad intendere questa totale conversione, i santi Dottori e Concili la chiamano transustanziazione, cioè cambiamento di una sostanza nell'altra. Non ci si meravigli, perché qualora si rifletta all'infinita onnipotenza di Dio, il quale creò dal nulla cielo e terra e quanto vi è nel mondo, ben si vede esser maggior prodigio il trarre dal niente qualche cosa, di quello di cambiare una sostanza nell'altra; un tale effetto lo vediamo ancora in noi stessi, quando il pane e il vino che prendiamo per nostro alimento, per virtù e forza del calore naturale, si converte nella sostanza dei nostri corpi.

Ci insegna inoltre la fede che gli accidenti del pane e del vino, che si chiamano specie sacramentali, quali sono la quantità, il colore, l'odore e il sapore, vi dimorano senza alcun soggetto, e quantunque siano meri accidenti sussistono da se medesimi, e producono in quelli che li ricevono gli stessi effetti, come se vi fosse la sostanza del pane e del vino, non mutandosi questi dopo la consacrazione, ma bensì perseverando costantemente i medesimi. Da questa meraviglia ne segue un'altra, ed è che Gesù Cristo si trova egualmente tutto intero tanto in un'ostia piccola, come in una grande, tanto in ogni piccola parte dell'ostia, come in tutta l'ostia, dimorando Egli in quel divino Sacramento non localmente, ma sacramentalmente; nello stesso modo in cui l'anima nostra è tutta nel corpo e in ciascuna parte dello stesso: da ciò ne consegue che è lo stesso comunicarsi ricevendo un'ostia grande o piccola, e persino una particella della stessa, poiché in ogni maniera si riceve tutto Gesù Cristo; il cui corpo non si divide, né si separa rompendosi l'ostia, ma resta tutto intero in ogni parte della medesima. Non è meno sorprendente il credere che Gesù nel momento stesso sia in cielo e, senza partir da quello, si trovi anche nel Santissimo Sacramento e in ogni luogo del mondo cattolico, e in tanti Sacrifici che dai sacerdoti si offrono nello stesso momento per tutta la Chiesa, senza mai moltiplicarsi, ma soltanto replicando Se Stesso in tutte le ostie consacrate.

Ma lasciando da parte gli altri prodigiosi effetti di questo divino mistero, ciò che più importa è che essendo questo pane vero pane di vita, la comunica a coloro che lo ricevono degnamente, e dà la morte a coloro che vi si accostano indegnamente, nello stesso modo che il sole rischiara e rinvigorisce col suo splendore le pupille forti e sane, mentre incomoda e aggrava le deboli ed inferme. Uno stomaco netto e fervido consuma il cibo col suo naturale calore, mentre uno stomaco ripieno di tumori e freddo non può triturarlo. Una stessa medicina risana l'uno e aggrava e talvolta uccide l'altro infermo a seconda della diversa disposizione di chi la prende. Quel cristiano che riceve questo santissimo Sacramento con la dovuta disposizione è fatto partecipe della grazia e della vita, ma porta la morte e la condanna a colui che non distingue questo divino cibo dagli altri comuni e giornalieri.

Bisogna inoltre avvertire che non solo il corpo e il sangue di Gesù Cristo è Sacramento, ma altresì vero sacrificio di propiziazione per i nostri peccati, il che non si può dire di nessuno degli altri Sacramenti: essendo Gesù Cristo Sacerdote eterno secondo l'ordine di Melchisedecco, come lo chiama il Profeta, doveva offrire sacrificio di pane e vino come lo aveva fatto Melchisedecco; il che si vede adempiuto nell'ultima cena, quando sotto le specie del pane e del vino istituì l'adorabile Sacrificio del suo corpo e del suo sangue, sacrificando poi Se Stesso sulla croce, dando l'ultima perfezione e consumazione al suo sacrificio, per mezzo del quale placa la collera del Padre e ci ottiene il perdono dei nostri peccati. Ma perché Egli è Sacerdote eterno, e non doveva morire che una sola volta, volle che nella sua Chiesa vi fosse un perpetuo sacrificio, il quale fosse simile a quello offerto sulla croce, e da Lui ordinato nell'ultima cena agli Apostoli, di modo che ogni giorno fosse offerto per le mani dei sacerdoti nella santa messa. Passa però tra l'uno e l'altro dei due sacrifici questa differenza: il sacrificio della croce si fece con l'effusione del sangue, ma non quello dell'altare; il primo fu corporale e doloroso, il secondo sacramentale e senza pena, l'uno fu l'intero pagamento dei nostri debiti e peccati, l'altro è l'applicazione di questo pagamento e dei suoi meriti ed una vera e reale rappresentazione della sua morte e passione. Nell'uno e nell'altro lo stesso Gesù Cristo è quegli che si offre, il sacerdote che l'offre, Dio a cui gli è offerto e gli uomini per i peccati dei quali si offre sono gli stessi, quand'anche ciò avvenga in una differente maniera. O bontà immensa! O carità inestimabile! O bontà e liberalità inaudita del nostro Signor Gesù Cristo! Egli è il donatore, e il dono stesso, il sacerdote, il sacrificio e la vittima, il sommo Pontefice che l'offre; lo schiavo riceve il suo Signore, l'uomo si ciba del pane degli angeli, il Creatore si offre alla creatura in cibo di vita eterna.

Taluno forse potrà ricercare le ragioni, per le quali nostro Signore istituì questo divino Sacramento, e volle dimorare con noi, venir nelle anime nostre in un modo sì portentoso. A questa domanda si risponderà, secondo ciò che possiamo presumere col nostro debole e grossolano intelletto, che vi sono due motivi di questa divina istituzione. L'uno la gloria di Dio, l'altro la nostra salute. Tutte le opere di Gesù Cristo si debbono riferire a questi due termini, come al loro vero scopo. Dio è così buono, che unisce sempre alla sua gloria la nostra utilità, né lascia passar incontro in cui possa beneficare le sue creature. La gloria di Gesù Cristo si manifesta dunque in quest'opera, perché dimostra a meraviglia la sua infinita bontà, per la quale non fu contento di essersi vestito della nostra inferma carne, di essersi dato a noi per esemplare, per guida, per maestro, per riscatto, per prezzo dei nostri falli, per santificatore e glorificatore delle anime nostre; tutto questo gli parve poco; volle ancora darsi per nostro nutrimento con una sì ammirabile invenzione, che colui che degnamente con purità e santità Lo riceve, diviene simile a Dio, uno stesso spirito ed una cosa stessa con Lui; secondo la divina espressione: “La mia carne è vero cibo, il mio sangue è vera bevanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, egli dimora in Me, ed Io in lui”.

Come il cibo per virtù del naturale calore si converte nella sostanza di quello che lo prende, e si fa una stessa cosa con lui; così quegli che mangia questo angelico Pane si unisce e diviene una stessa cosa con Cristo, con la differenza che questo cibo divino non si converte in quello che lo ha ricevuto, ma trasforma in sé quello che lo prende. Da ciò ne consegue, secondo il sentimento di san Cirillo gerosolimitano, che per virtù di questo Sacramento noi possiamo essere chiamati concorporali e consanguinei di Gesù Cristo. Quanto è mai vero che il nostro Dio, e sovrano bene, altro non desidera che di rendere l'uomo simile a se medesimo, e partecipargli i tesori e le dovizie della sua divinità. A questo fine volle scoprirci il suo tenero ed eccessivo amore nell'istituzione di questo Sacramento per eccitare la nostra tenerezza ed amore; perché è proprietà dell'amore l'unire due cuori in uno solo, e di due volontà farne una sola, e trasportare di maniera quello che viene amato, sicché egli viva come morto nei suo corpo e viva soltanto in quello che ama. Questo amore ce lo palesò nostro Signore, poiché per unirsi alle anime nostre lasciò Se Stesso in questo Sacramento. Siccome l'amante non può soffrire la lontananza dell'oggetto amato, dovendo Egli partire da noi, né potendo noi seguirlo, trovò la maniera di allontanarsi e di rimanere al tempo stesso con noi. Questo appunto è ciò che canta la Chiesa: “Oh quanto è soave il vostro spirito, Signore, perché volendo voi dare una prova certa dell'amore che portate ai vostri figli, li avete provveduti di un soavissimo pane venuto dal cielo, il quale riempie di beni i famelici, e lascia vuoti i superbi”.

Che diremo della sua sapienza, che in questo Sacramento pur si palesa? Egli ha trovata una sì salubre medicina per risanare le nostre infermità, ed un antidoto certo contro il veleno dell'antico serpente. Qui sta nascosta e velata quella purissima carne concepita per opera dello Spirito Santo, la quale purifica la carne corrotta di Adamo, che infetta le anime a quella unite. Con questo frutto di vita si riparano i danni provenuti dall'altro frutto di morte. Dalle quali cose tutte ne risulta gloria a Gesù Cristo molto maggiore di quella che a Lui si conviene per la creazione, disposizione e armonia dei cieli, e di tutto il creato.

Chi potrà poi spiegare gli effetti ammirabili e divini, che questo supremo Sacramento causa nelle anime pure e sante, che a lui si accostano? Per dirne qualcuna, secondo il nostro modo d'intendere, prenderemo esempio dagli effetti visibili che il cibo naturale produce nei nostri corpi. Non vi è dubbio che il cibo corporale quotidianamente si prende per ristorare quello che si perde della nostra sostanza, e si consuma per la forza del naturale calore. Ora le anime nostre hanno maggior bisogno dei corpi di un tale ristoro; perché il fuoco della concupiscenza, che inclina o porta sempre al male, rode e consuma la forza e la virtù dell'anima, e ci lascia deboli e fiacchi, ma qualora ci ristoriamo con questo celeste pane, e fortifichiamo l'anima con questo pane dei forti, si ripara a qualunque disordine. Il secondo effetto del cibo è dilettare e dar gusto a chi lo mangia, il quale è maggiore quanto più il palato è sano e ben disposto, e la vivanda è più delicata. Non vi è lingua umana che possa dar ad intendere i gusti, le dolcezze, i sapori, le delizie che prova un'anima pura e ben disposta ogni volta che riceve quel Dio che è l'autore e la sola sorgente di ogni dolcezza e soavità. Godano pure i mondani i loro piaceri terreni, che una tale anima non porterà mai loro invidia, ma piuttosto compassione; tanta diversità passa tra i piaceri terreni del corpo e quelli spirituali dell'anima, quanta vi è tra la bassezza e miseria del corpo e la nobiltà ed eccellenza dell'anima: i piaceri spirituali sono tali e tanti, che tolto il vedere e godere di Dio a faccia svelata, possono paragonarsi alle delizie celesti. Il terzo effetto del cibo è toglier la fame e saziare il corpo, ma questo effetto rispetto all'anima non vi è che Dio solo, il quale possa operarlo. Finché Egli non viene a lei e a lei si unisce, l'anima avrà sempre fame, e mai si potrà saziare. Egli, il Signore, che è l'ultimo nostro fine, il centro della nostra vera felicità, la può riempire e ricolmarla di modo che non le rimanga più nulla da desiderare. Felice e beata quell'anima che con frequenza e ottima disposizione si accosta a questo pane di vita, che in sé contiene ogni puro diletto ed ogni soavità più eletta.

O ammirabile Sacramento! Che potrò io mai dire di voi? Con quali espressioni potrò io lodarvi? Voi siete la vita delle anime nostre, la medicina delle nostre piaghe, la consolazione dei nostri gemiti e travagli, il memoriale della passione di Gesù, il testimonio del suo amore, il prezioso legale del suo testamento, la compagnia nel nostro pellegrinaggio, l'allegrezza del nostro esilio, la fornace del divino amore, il canale per ricevere la grazia, il pegno della felicità, il tesoro della vita cristiana.

Per questo pane vitale l'anima si unisce al suo Sposo, l'intelletto è illuminato, la volontà accesa, in esso il gusto interiore trova le sue delizie, la devozione si accresce, le passioni si acquietano, i casti desideri si risvegliano, la nostra debolezza si rinfranca per camminare sino al monte santo di Dio.

Conviene però molto ben riflettere alla disposizione, nella quale deve trovarsi colui che si accosta all'altare per ricevere questo cibo divino, se vuole assaporare il gusto e godere degli effetti mirabili di questo Sacramento: perché siccome l'anima, che vive in noi, non può animare un membro separato dal corpo ma soltanto quelli che al corpo stanno uniti; alla stessa maniera questo divino Sacramento, che è la vita delle anime nostre, per comunicarcela è necessario che esse siano unite a lui per la carità, e siano membri vivi e vigorosi della santa Chiesa. La medicina e il cibo corporale nulla giovano ad un corpo morto; in egual modo questo Sacramento nulla giova a coloro che sono in peccato mortale e morti nelle loro anime: perciò si chiama pane di vita, non solo perché dà e mantiene e accresce la vita con la sua grazia, ma anche perché richiede che colui che lo riceve viva alla stessa grazia. Per questo il sacro concilio di Trento dichiara che colui che vuole comunicarsi, se dopo aver seriamente esaminata. la sua coscienza, si trova reo di qualche peccato mortale, è obbligato a confessarsi sacramentalmente prima di accostarsi all'altare; perché non essendo egli vestito della veste nuziale, sarà escluso dalle nozze, e gettato nella tenebre esteriori a pagare eternamente il fio della sua temerità, qualora non si emenda.

Negli esordi della nascente Chiesa, bagnata da poco dal caldo e prezioso sangue di Gesù Cristo, le comunioni erano frequenti e quotidiane: ma intiepiditosi il fervore dei cristiani, il santo pontefice Anacleto per riaccenderlo comandò che dopo la consacrazione del sacerdote gli assistenti si comunicassero secondo l'antico costume derivato dagli Apostoli. Ma come la miseria dell'uomo lo spinge all'ingiù, così si andò raffreddando lo spirito del cristianesimo, perciò san Fabiano papa e martire ordinò che i cattolici si comunicassero almeno tre volte l'anno, cioè al Natale, alla Pasqua ed alla Pentecoste. Infine, sminuendosi di più il fervore e l'uso di questo Sacramento, per eccitare i fedeli a cibarsi di questo Pane, accadde che Innocenzo III, nel Concilio generale lateranense, comandasse sotto gravi pene che tutti i fedeli giunti all'età della discrezione si confessassero dei loro peccati al proprio confessore e almeno una volta l'anno ricevessero con riverenza nel tempo pasquale questo augustissimo Sacramento.

Non ci meravigli se i cristiani sono caduti e cadono in così enormi eccessi, e per ogni dove inondasse e inondi il vizio, e il mondo fosse gravato e sia ancora oppresso di miserie e calamità, come ci raccontano le storie e come lo vediamo cogli occhi nostri. Siano invece eterne le benedizioni alla bontà del nostro Dio, il quale sempre, in un mondo così depravato e corrotto, ebbe ed ha ancora le sue anime dilette che spesso si accostano con tanto frutto al sacro altare. Ma come mai tanta cura dei nostri corpi e tanta trascuratezza per le anime? Quando siamo infermi desideriamo più spesso le visite del medico. Perché dunque, poiché siamo infermi nello spirito e aggravati da tante infermità spirituali, non abbiamo almeno un'eguale premura di essere visitati dal Medico celeste Gesù Cristo? Se in tempo di contagio cerchiamo tanti rimedi, e dovendo fare un viaggio in terra nemica, vi andiamo molto ben armati e attorniati da molta gente: perché dunque vivendo noi in un mondo che per ogni parte spira assalti contagiosi, stando in mezzo a tanti pericoli e nemici, non approfittiamo di questo antidoto e farmaco celeste, e non ci armiamo della forte e insuperabile armatura, che è Gesù Cristo? E se infine Gesù Cristo è così pietoso ed amoroso verso gli uomini, da trovare le sue delizie nel trattenersi coi figli degli uomini, perché saremo noi così ingrati e irriconoscenti a non preparargli la stanza del nostro cuore per alloggiarlo, e a non disporci con ogni pietà e devozione per riceverlo spesso nelle anime nostre?

Riguardo poi all'istituzione di questa festa, che si celebra dalla santa Chiesa con tanta pompa e decoro, ella ebbe principio sotto il pontificato di Urbano IV, nell'anno 1265, nel quale firmò una bolla per eccitare i fedeli a venerare in questo giorno con ogni culto interno ed esterno il divino Sacramento, che in quei giorni con portentosi miracoli manifestò la sua gloria, in faccia agli increduli ed infedeli. Concesse papa Urbano cento giorni d'indulgenza a chiunque confessato e comunicato assisterà ai mattutini di quell'ottava, e altrettanto a coloro che assisteranno alla messa, ai primi e secondi vespri, e quaranta giorni d'indulgenza per ciascuna ora della mattina. Papa Clemente V confermò questa bolla e ne comandò la solenne festa per tutto il mondo cattolico. Papa Martino V ed Eugenio IV, ampliarono le indulgenze, ne aggiunsero di nuove a quelli che comunicati in questo giorno accompagneranno la processione, e digiuneranno la vigilia della festa.

Fra gli altri prodigi avvenuti sotto il pontificato di papa Urbano, uno fu che celebrando un certo sacerdote la messa nella chiesa di san Cristina di Bolsena, dopo la consacrazione dell'ostia fu sorpreso da un forte dubbio circa la verità del santissimo Sacramento, e istantaneamente l'ostia cominciò a spargere zampilli di vivo sangue, il quale macchiò il corporale e penetrò fin sulla pietra sacra di marmo dell'altare, come si vede anche oggi. Ne fu avvisato il Pontefice, il quale comandò che fosse portato il suddetto corporale ad Orvieto, dove dimorava, alla cui venuta si istituì una solenne processione di cardinali, arcivescovi, vescovi e tutto il clero, andò il Pontefice a riceverlo, riponendolo nella chiesa principale della città, dove, con questa occasione, gli fu poi fabbricata una bella chiesa dedicata a nostra Signora. Il glorioso martire san Cipriano, san Giovanni Crisostomo, san Gregorio papa raccontano molti miracoli accaduti durante il loro tempo per comprovare la verità di questo Sacramento contro gli eretici o gli infedeli. Il venerabile cardinale Cesare Baronio al tomo settimo dei suoi annali riporta il fatto del fanciullo ebreo, il quale essendo entrato in una chiesa cattolica e vedendo gli altri comunicarsi, si accostò anche egli all'altare, e ricevette l'Eucaristia. L'ebbe a sapere il padre del fanciullo, il quale si infuriò a tal punto che gettò il figlio nella fornace ardente, presso cui lavorava per il suo mestiere. Dopo tre giorni l'afflitta madre, piangendo amaramente la perdita del figlio, udì la sua voce in mezzo alle fiamme, da dove uscì illeso e salvo con stupore di tutti: e madre e figlio abbracciarono la fede; ma il perfido genitore, volendo perseverare nella sua cecità e ostinazione, per l'empio attentato fu dall'imperatore Giustiniano condannato a morte. Tommaso Valdense, uomo di tutta fede, narra come nell'anno 1420, sotto Martino V, nella città di Londra c'era un empio eretico, che negava la presenza reale di Gesù Cristo nell'Eucaristia. Fu costui condannato a morte, quando si frappose l'arcivescovo di Conturbia, e cercò di persuadere l'ostinato della verità della fede, e d'indurlo alla ritrattazione: costui fra le altre indegne risposte gli disse: “Stimo assai più degno di riverenza ed onore un ragno, che quell'Ostia”. Appena pronunciò l'orrenda bestemmia, alla presenza di tutti si vide calare dalle travi per il suo filo un ragno spaventoso, deforme, nero ed orrido, che tentava di entrare nella bocca del miscredente. Vi accorsero i circostanti per impedirne l'ingresso, facendogli rimarcare l'imminente castigo di Dio per l'empio suo errore; ma ostinato nella sua perfidia, l'eretico fu condannato alle fiamme e ridotto in cenere.

Per questi motivi, e per tanti altri, possiamo intendere non solo quanto sia certa e vera la divina reale presenza di Gesù Cristo nell'Augustissimo Sacramento dell'altare, ma anche quale debba essere il nostro culto, la nostra venerazione, il nostro rispetto ed amore verso un Uomo Dio che tanto operò per la nostra eterna salvezza.


Padre Carlo Massini