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La libertà umana nella concezione cristiana/2

Consentitemi di iniziare da una citazione. "Né i greci né i romani, né parimenti gli asiatici sapevano che l’uomo in quanto uomo è nato libero, ch’egli è libero: nulla sapevano di questo concetto. Essi sapevano che un ateniese, un cittadino romano, un ingenuus, è libero: che si dà [fra gli uomini] libertà e non libertà: non sapevano tuttavia che l’uomo è libero come uomo – cioè l’uomo universale, l’uomo come lo prende il pensiero e come esso si apprende nel pensiero. È il cristianesimo che ha portato la dottrina che davanti a Dio tutti gli uomini sono liberi, che Cristo ha liberato gli uomini, li ha resi uguali davanti a Dio, li ha liberati alla libertà cristiana. Il progresso enorme è che queste determinazioni (della libertà) rendono la libertà indipendente dalle condizioni di nascita, stato, educazione ecc. che sono ben diverse da ciò che forma il concetto di uomo per essere un [soggetto] libero". [G. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia; cit. da C. Fabro, Riflessioni sulla libertà, EDIVI, Segni 2004, pag. 171; più precisa è la formulazione della stessa idea in Enciclopedia delle scienze filosofiche § 482; Universale Laterza 58, pag. 442-443].

Non ci proponiamo di esporre il pensiero di Hegel al riguardo, ed il suo sviluppo. La citazione voleva solo introdurci nel grande tema di queste tre lezioni: la libertà del singolo è stata costituita dall’annuncio cristiano, anche se oggi la coscienza dell’appartenenza essenziale della libertà all’uomo come tale è divenuta un guadagno spirituale acquisito anche da chi non si riconosce nella fede cristiana. Nel senso del discorso introduttivo che stiamo facendo, parlando di libertà è giusto dire che ciascuno di noi "non può non dirsi cristiano".

Ma ritorniamo al nostro tema. In questa prima lezione vorrei rispondere alla seguente domanda: perché l’idea che l’essenza propria dello spirito è la libertà ha potuto porsi solo coll’annuncio cristiano?

La risposta che io costruirò a questa domanda si articola in tre momenti: perché il cristianesimo pone all’origine dell’uomo un atto di intelligenza e di libertà; perché il cristianesimo finalizza il singolo all’eternità; perché il cristianesimo istituisce la possibilità della scelta intesa come la generazione del proprio io eterno. Dividerò pertanto la presente lezione in tre parti. Prima parte: la libertà vista alle spalle; seconda parte; la libertà vista dal fine; terza parte: la libertà vista nel suo percorso.

Alle spalle della libertà.

Il fatto a noi più evidente è anche il fatto più enigmatico: quello del mio esserci, il fatto che "io esisto". Ho pronunciato la parola più intensa che l’uomo possa pronunciare: "io". Questa parola infatti denota l’esistenza di un "aliquid" che si pone come unico, insostituibile, irripetibile. Donde ha avuto origine questa realtà?

La risposta che può dare il sapere scientifico non è ultimamente risolutiva. Essa infatti spiega come sorge l’individuo di una determinata specie vivente; attraverso quale processo di fusione delle due cellule germinali sorge un individuo appartenente alla specie umana.

Risposta non risolutiva in quanto lascia senza risposta la domanda fondamentale: perché esiste quell’individuo umano che sono io e non piuttosto un altro? L’individualità dell’uomo non è dello stesso grado dell’individualità di una pianta o di un animale come già sembra pensare Aristotele [cfr. Categorie 2b 22-23; ma cfr. 3b 35ss].

Abbiamo una sorta di conferma psicologica, per così dire, di ciò che sto dicendo. Quando un uomo e una donna decidono di dare origine ad una vita umana, essi possono solo desiderare di avere un bambino. Non hanno alcuna possibilità di scegliere questo bambino piuttosto che quello. I miei genitori non volevano me, ma un bambino, un figlio. Che il figlio voluto fossi io, questo non era più in loro potere.

L’impersonale non può dare origine al personale; la natura non può giungere a dire "io". Una persona può sorgere solo dalla Persona.

All’origine del mio esserci non ci può dunque essere che un atto di intelligenza e di scelta: ero conosciuto prima di esistere e sono stato scelto fra infiniti altri possibili. La fede cristiana, ma in profonda sintonia colle esigenze esplicative della ragione, insegna che ogni e singola persona umana è creata da Dio stesso. Anzi più precisamente, che lo spirito umano può avere origine direttamente ed immediatamente da Dio stesso. Orbene la persona nel suo nocciolo sostanziale è costituita nell’uomo dall’anima semplicemente spirituale [cfr. E. Stein, Essere finito ed infinito]. In parole più semplici: nessuno di noi esiste per caso o per necessità, ma ciascuno di noi è stato voluto e scelto da Dio stesso.

Perché questa riflessione mette al sicuro "le spalle" della libertà? Perché se l’uomo non sporgesse sopra i meccanismi biologici che lo hanno prodotto, egli sarebbe alla completa disposizione degli stessi, senza nessuna possibilità reale di poter dire "io agisco: io scelgo…". Ciò che sto dicendo è che non sarebbe possibile affermare ragionevolmente la libertà della persona se contemporaneamente si affermasse che il mio esserci è completamente spiegabile in base ai suoi antecedenti fisici e biologici. Le due affermazioni, l’uomo è libero – l’uomo è solamente un individuo della specie, non possono essere razionalmente sostenute contemporaneamente.

"L’essenza della libertà come spontanea auto-determinazione, o come risposta o decisione portata avanti da nient’altro che il centro personale stesso, è totalmente incompatibile coll’essere identico a, o casualmente dipendente da, i processi cerebrali" [J. Seifert, Anima, morte ed immortalità, in A.VV. L’anima ed. A. Mondadori, Milano 2004, pag. 163].

Ma c’è un altro aspetto nel contesto della riflessione che stiamo conducendo. Nel passo citato all’inizio Hegel dice: "(per il cristianesimo) l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito" [Enciclopedia … cit. pag. 443]. Poiché ogni persona deve il suo esserci ad un atto di libertà di Dio, la libertà umana è posta fin dall’inizio dentro ad una relazione: la relazione fra Dio e la persona umana.

Questa sua originaria collocazione imprime nella nostra libertà, nel suo esercizio, un senso indistruttibile. Se la persona umana, ogni persona umana, è stata pensata e voluta da Dio stesso, ciascuno di noi è investito di un compito, è depositario di una "missione" affidata precisamente alla sua libertà. Il senso della vita non deve essere inventato, ma scoperto.

Comincia a delinearsi il concetto cristiano di libertà. Essa nella prospettiva cristiana è la capacità di rispondere alla chiamata di Dio creatore. Capacità di rispondere, cioè responsabilità. Tu rispondi a Dio di te stesso: questa è la definizione di libertà cui si giunge considerando la persona umana alla sua origine.

Nel contesto di questa riflessione appare anche la connessione fra libertà/obbedienza, che il pensiero cristiano afferma con grande forza come due termini per connotare la stessa realtà. E l’anello di congiunzione che li connette è il concetto di "vocazione" o "missione". L’archetipo della libertà è il consenso mariano.

È forse bene, giunti a questo punto, sintetizzare quanto ho detto finora: la libertà è salvaguardata se all’origine del mio esserci c’è una Potenza che mi ha posto in essere per amore.

Vorrei ora prima di passare al punto seguente, proporvi una riflessione conclusiva che ha carattere di corollario in un certo senso. Me l’hanno ispirata alcune pagine di Platone ripreso su questo punto dai grandi teologi francescani del XIV secolo.

Se io dipendessi totalmente dai miei antecedenti biologici che casualmente mi hanno prodotto nel grembo di mia madre, questi stessi elementi sarebbero in grado di distruggermi completamente. Se io fossi solamente il risultato casuale della natura, questa stessa sarebbe in grado di annientarmi completamente. Ma il fatto che io sia posto in essere dalla Potenza creatrice di Dio mi dona una consistenza ontologica superiore ad ogni forza naturale. La natura non è in grado di riassorbirmi completamente, perché non le appartengo completamente. Ho una certezza indubitabile del mio io, che fuori da quell’originaria relazione col Creatore non potrei avere.

La libertà, ciò che nella persona è la sorgente profonda dell’auto-determinazione, è il segno di questa superiore invincibilità della persona nei confronti della natura. È impossibile che l’io personale sia distrutto, proprio perché ciò che lo può uccidere, l’universo materiale, non solo gli è inferiore per dignità quanto all’essere, ma è anche liberamente dominato dalla persona mediane la sua libertà. "Ma anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente" [B. Pascal 347; San Paolo ed., Milano 1996, pag. 342].

Al traguardo della libertà.

Non dimentichiamo la domanda da cui siamo partiti: perché l’idea che l’essenza propria dello spirito è la libertà ha potuto porsi solo coll’annuncio cristiano? Abbiamo dato la prima parte della risposta: perché l’annuncio cristiano afferma che l’uomo non è il prodotto della natura, ma un tu di fronte a Dio, suscitato dal suo amore.

Ora vorrei costruire la seconda parte della risposta: perché l’annuncio cristiano afferma che ogni uomo è chiamato all’eterna comunione di conoscenza ed amore con Dio stesso.

Questa risposta deve articolarsi in due momenti argomentativi. Il primo deve dimostrare che l’uomo è "fatto" per Dio stesso; il secondo che questa finalizzazione dell’uomo esige che egli sia libero, anzi che la libertà sia il costitutivo più profondo della sua persona.

2,1.Il tema della finalizzazione dell’uomo a Dio, di ogni uomo all’incontro eterno con Dio steso, è stato dimostrato e pensato nella tradizione del pensiero cristiano in innumerevoli variazioni. Non possiamo presentarle tutte, neppure brevemente. Mi limito a due particolarmente suggestive.

La prima: l’uomo è dotato di un’apertura infinita che solo Dio stesso può compiere. Dunque, l’uomo è fatto per l’incontro con Dio stesso. È il grande tema agostiniano: "inquietum est cor nostrum donec requiescat in te".

Mi sembra particolarmente suggestiva la modulazione tomistica di questo tema [cfr. 1,2. q.3,a.8]. Il bisogno, il desiderio di verità presente nell’uomo lo spinge alla ricerca di una risposta ultima alla sua domanda di vero. Egli non si accontenta, come l’esperienza dimostra, di risposte penultime, risposte cioè che a loro volta diventano occasione o stimoli di nuove domande. Esiste nel cuore umano il bisogno e l’invocazione di una Risposta che sia intera e quindi definitiva: questa risposta – come dimostra la nostra esperienza – non può consistere in una risposta che l’uomo stesso raggiunge. Una risposta umana è necessariamente frammentaria e provvisoria.

Questo inseguimento insonne della verità dimostra che ogni persona è finalizzata ad un incontro personale con Dio stesso. La nostra domanda di verità ha un significato: è la domanda della persona creata alla Verità increata. E non può non avere un significato poiché è costitutiva della persona stessa.

Esiste anche un’altra modulazione dello stesso tema, non meno suggestiva. L’essere personale eccelle nei confronti di ogni essere impersonale in ragione della sua stessa costituzione ontologica. L’essere reale, infatti, l’autopossesso, l’autonomia e l’autarchia sono realizzati nell’essere della persona in modo più elevato che nelle realtà impersonali.

Da questa gerarchia deriva la conseguenza che nessuna realtà impersonale può essere lo scopo ultimo della vita di una persona [cfr. la riflessione di Tommaso in Contra gentes III, cap. CXII]: la persona può essere fine a se stessa? Essa dovrebbe fare violenza al desiderio di vero e di bene che la costituisce e che è illimitato. Porre in qualcosa di finito la propria ragione d’essere significa rinunciare alla propria dignità ontologica: l’uomo può essere fedele a se stesso solo superando, solo trascendendo se stesso. Nella conoscenza, nel riconoscimento di Dio come Dio, nella sua adorazione e nell’amore di Lui, l’uomo trova quella pienezza trascendente che lo realizza interamente.

2.2.Passiamo ora alla seconda articolazione della seconda parte della nostra risposta: l’immediata e diretta finalizzazione di ogni persona umana all’incontro con Dio costituisce la persona umana medesima nella libertà.

Prima di argomentare questa risposta devo premettere una riflessione di decisiva importanza teoretica per tutto il discorso seguente.

Ho sempre connotato finora la pienezza di essere e di senso cui l’uomo è destinato con un’espressione metaforica: incontro con Dio. Ora però è necessario tentare una rigorizzazione concettuale.

La parola "incontro" denota un avvenimento che può accadere solo fra persone, fra soggetti cioè che si conoscono e sono liberi. Esso (avvenimento) infatti implica una reciprocità. Inoltre, questa reciprocità si colloca e a livello di conoscenza e a livello di amore.

A livello di conoscenza. "Incontrarsi" in senso intensamente vero implica una reciproca conoscenza, un disvelarsi nella propria soggettività. A livello di amore. La conoscenza reciproca non fa accadere l’incontro; ne è solo la condizione indispensabile. La conoscenza reciproca può generare perfino odio reciproco! L’incontro accade quando si pone un reciproco amore: Tommaso definisce questa dimensione dell’incontro interpersonale amicizia. L’amore infatti è essenzialmente estatico, fa uscire da sé, poiché èessenzialmente benevolente, vuole il bene dell’altro, ed è essenzialmente unitivo, vuole l’unità con l’amato. Possiamo allora dire: l’incontro dell’uomo con Dio è l’amicizia fra Dio e l’uomo nella quale Dio si rivela all’uomo e si dona all’uomo, e reciprocamente l’uomo conosce ed ama Dio.

Se ora consideriamo attentamente questo fatto, noi comprendiamo che esso è tutto impastato di libertà.

Vediamo la cosa dal punto di vista del partner divino. Le cose possono essere conosciute comunque: esse non si nascondono. Ma le persone non possono essere conosciute comunque: esse devono in un qualche modo "lasciarsi conoscere", devono cioè decidere di rivelarsi, di dirsi. Fare della persona un "oggetto" di conoscenza come fossero "cose", è precludersi la conoscenza più profonda della persona medesima.

La cosa è ancora più vera per Dio stesso. Noi infatti possiamo avere di Lui solo una conoscenza mediata ed indiretta: "come in uno specchio" dice l’Apostolo. Ora nessuno si innamora di una fotografia!

L’amicizia allora fra Dio e l’uomo dipende completamente dalla decisione di Dio di rivelarsi all’uomo, di dirsi all’uomo in modo immediato e diretto.

L’essere l’uomo finalizzato a Dio non esige da parte di Dio di rivelarsi e donarsi all’uomo. Ogni necessità cogente qui è esclusa per la natura stessa dell’avvenimento: un incontro fra persone; è esclusa per la natura assolutamente trascendente del mistero divino.

Ora questa decisione è stata divinamente presa: Dio si è rivelato ed ha offerto la sua amicizia all’uomo. Molte volte ed in vari modi mediante i profeti nella storia di Israele; nella pienezza dei tempi assumendo la stessa nostra natura umana e vivendo quindi nella nostra stessa condizione umana. Dio è nato da una donna; ha lavorato, gioito e sofferto; ha avuto una dimora umana dentro la cultura di un popolo, il popolo ebreo. La rivelazione che Dio ha fatto di Se stesso pienamente in Cristo è la proposta offerta all’uomo dell’amicizia con Dio stesso. Ma vediamo ora la cosa dal punto di vista della persona umana.

Perché l’amicizia con Dio accada, l’uomo deve decidere di accettare la rivelazione – proposta divina. Se Dio ha deciso di offrirsi all’uomo, l’uomo deve liberamente decidere se accettare o meno questa proposta poiché non si darebbe vera amicizia fra una persona ed uno schiavo, fra una persona ed un oggetto. Se l’uomo è finalizzato ultimamente all’incontro con Dio, la libertà dimora nella sua più intima costituzione ontologica dal momento che questa finalizzazione può realizzarsi solo liberamente.

Questa considerazione precisa il concetto cristiano di libertà già delineato nel punto precedente. Essa, considerando la finalizzazione della persona umana alla luce della Rivelazione cristiana, ci appare più profondamente di prima la capacità di rispondere alla proposta che Dio ci fa in Cristo. Ancora più profondamente appare che l’uomo è libero davanti a Dio.

Profondamente, S. Kierkegaard chiama l’io umano considerato nella luce di ciò che stiamo dicendo, l’"io teologico", in quanto è confrontato con Dio stesso, in quanto ha preso per sua misura Dio stesso: "E’ l’io di fronte a Dio. E che realtà infinita non acquista l’io acquistando coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un io umano la cui misura è Dio" [La malattia mortale, P.II, cap. 1]. Il nostro io nasce in pienezza quando e perché ha coscienza di essere davanti a Dio; dovendosi confrontare con Dio stesso che gli si rivela in Cristo. La nostra libertà è posta dentro al confronto con la libertà di Dio. È questo il punto centrale della concezione cristiana della libertà, già preparata e presente in nuce già nella concezione ebraica.

Questo confronto avviene nei riguardi di Cristo, poiché è in Lui che Dio si dice e si dona all’uomo. Il dramma della libertà umana, secondo la concezione cristiana, è rappresentato nel dialogo fra Gesù e Pietro, dopo la moltiplicazione dei pani [cfr. GV 6,67-69]. Cristo pone Pietro (l’uomo) di fronte alla sua decisione suprema: "forse anche voi volete andarvene?", nel senso di non riconoscere il Cristo solamente come colui che risolve meglio degli altri il problema del cibo. E Pietro rispose: "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna". L’uomo decide per Cristo perché sente che Lui è la pienezza della vita; è la Vita eterna cui l’uomo si sente ordinato.

Nella concezione cristiana quindi la libertà umana raggiunge il suo apice nell’atto di fede. Attraverso l’atto di fede l’io dà alla sua esistenza un senso radicale e definitivo. La fede è riconoscere che il rapporto personale con Cristo vivente nella Chiesa è il significato ultimo della vita. È una decisione irrevocabile perché è risposta incondizionata alla proposta divina: non si può dire a Dio "per qualche tempo". È una decisione posta nella prospettiva dell’eternità perché si entra in una relazione il cui compimento è posto fuori dal tempo. È una decisione permanente poiché non è posta una volta per sempre ma esige di essere sempre confermata. È una decisione totale perché coinvolge l’io nell’intera sua realtà.

La libertà della fede è la "diremption" radicale: o l’uomo accetta di entrare nell’amicizia con Dio che in Cristo gli offre il suo amore oppure decide di rifiutarsi e di imprigionarsi dentro il finito. Questa è la vera separazione che alla fine avverrà fra gli uomini. Ma di questo parleremo nel paragrafo seguente.

La prospettiva dell’origine della libertà e la prospettiva del fine della libertà sono unificabili in un punto di vista superiore? Certamente. Questo punto di vista è costituito dalla inscrutabile decisione divina di comunicare la pienezza della sua Vita anche a persone create: queste sono pensate e volute una ad una [prospettiva dell’origine] perché diventino partecipi della Vita divina [prospettiva del fine]. Poiché questa misteriosa decisione divina è puramente gratuita, è solo grazia, nella visione cristiana è la grazia che suscita la libertà umana.

Dal punto di vista umano la libertà ha un senso da realizzare [prospettiva dell’origine] perché l’io è chiamato a realizzarsi pienamente in Cristo, Dio fatto uomo [prospettiva del fine]. Nella visione cristiana quindi la libertà umana è la capacità di rispondere alla proposta d’amore fatta da Dio in Cristo.

La libertà in cammino.

Chiamato a realizzarsi pienamente nell’eternità, l’uomo decide di sé nel tempo: è il tempo la sua dimora. Chiamato a confrontarsi colla proposta divina, l’uomo ha però sempre a che fare con proposte create. Possibilità di Infinito, l’uomo si muove dentro al finito.

Come valutare questa condizione paradossale? Se non sbaglio, sono state date tre valutazioni fondamentali.

È una condizione di condanna: l’uomo è stato imprigionato dentro al finito. La sua libertà consiste nell’uscire da questa prigione, nel liberarsi dalle catene della finitezza. La libertà "in cammino" è evasione dal tempo, dalla limitatezza.

È una condizione illusoria: l’uomo si illude di essere fatto per l’eterno. "Spem longam reseces", consigliava già Orazio a Leuconoe. La vita non ha un porto definitivo; non è un pellegrinaggio, ma un vagabondaggio. È possibile navigare solo a vista. Il nostro destino è l’effimero.

La visione cristiana non sacrifica il finito a spese dell’Infinito né accorcia la misura del desiderio umano. La libertà umana è un cammino lungo la scelta di beni finiti in ordine alla scelta dell’Infinito. L’io costruisce se stesso mediante le sue scelte nel tempo in ordine alla sua eternità. Si eredita il Regno eterno dando da bere a chi è assetato. È questo cammino della libertà che ora cercherò di esporre.

Parto da un limpido testo di S. Tommaso: "per questo dunque Dio vieta l’empietà e prescrive la giustizia, in quanto a Dio stanno a cuore gli uomini che da tali comportamenti vengono aiutati oppure danneggiati" [Commento al libro di Giobbe, Cap. 35; ESD, Bologna 1995, pag. 404]. L’idea centrale di questo testo è che la distinzione fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto non è ultimamente una decisione divina [bonum quia jussum], ma il bene della persona umana [jussum quia bonum].

La chiamata e la proposta che Dio fa all’uomo in Cristo è in ordine, come si è detto, alla piena realizzazione dell’uomo: è – si diceva – una proposta di amore che intende il bene della persona chiamata. È questa divina proposta che fa essere la libertà umana.

La persona umana si realizza attraverso i suoi atti; è mediante il suo agire che l’uomo porta a compimento se stesso. Esiste dunque un orientamento fondamentale della persona ["a Dio stanno a cuore gli uomini"], che deve realizzarsi nelle scelte di cui è costituita la trama di ogni esistenza.

E qui si pongono alcune domande fondamentali a riguardo del cammino dell’uomo nel tempo. Ogni scelta è capace di realizzare la persona in ordine alla sua chiamata all’incontro con Dio in Cristo? Da che cosa è assicurata questa capacità realizzativa, questa ordinazione della persona a Dio mediante e negli atti liberi della persona?

L’agire dell’uomo non produce solamene un cambiamento nel mondo in cui la persona vive. In quanto scelte libere, gli atti della persona la qualificano moralmente, ne disegnano la fisionomia spirituale. Profondamente, Tommaso scrive: "idem sunt actus morales et actus humani" [1,2, q.1 a.3].

Scrive l’Enc. Veritatis splendor: "La moralità degli atti è definita dal rapporto dell’uomo col bene autentico. Tale bene è stabilito, come legge eterna, dalla sapienza di Dio che ordina ogni essere al suo fine: questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale dell’uomo (…), quanto – in modo integrale e perfetto – attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio (…). L’agire è moralmente buono quando le scelte della libertà sono conformi al vero bene dell’uomo ed esprimono così l’ordinazione volontaria della persona verso il suo fine ultimo, cioè Dio stesso: il bene supremo nel quale l’uomo trova la sua piena e perfetta felicità" [72,1; EE 8/1680]. La verità sul bene della persona conosciuta mediante la ragione e mediante la Rivelazione divina è la guida che dirige la libertà nelle sue scelte. È facendo la verità sul bene della persona, che la libertà ordina la persona medesima all’incontro definitivo con Dio nell’eternità.

La suprema divaricazione fra la scelta moralmente buona e la scelta moralmente cattiva è il respiro dell’eternità divina dentro il tempo umano. È costruendo se stesso nella verità e non un se stesso falso ed illusorio, che l’uomo edifica nel tempo la sua dimora eterna. Le pietre sono di questo tempo, l’edificio è l’eterno: questa è la suprema grandezza di ogni scelta libera, nella visione cristiana. Una grandezza che non può non suscitare un immenso stupore quando ne diventeremo consapevoli: "quando ti abbiamo visto affamato… e ti abbiamo dato da mangiare?". L’etica è e resta il compito supremo che è posto per ogni uomo, scrive S. Kierkegaard [Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, cit. pag. 339]. La verità sul bene è l’unica verità che non sopporta di essere trasformata in ipotesi, poiché è l’unica verità che si interpone fra la libertà umana e Dio: sottraendo se stessi a questa verità si precipita nell’insignificanza.

Consentitemi, prima di concludere, una riflessione sulla condizione spirituale attuale, alla luce di quanto ho detto finora. Quando la libertà perde ogni serietà, cessa di essere un "caso serio"? quando si nega che esista una verità circa il bene della persona, e quindi si degrada la ragione a mero strumento di ricerca della propria utilità. Negata la verità circa il bene, la libertà viene completamente ridotta a forza in sé neutrale di fronte a qualsiasi scelta: la "cifra" della libertà è l’indifferenza [libertas indifferentiae]. E tutta la sua forza è ridotta alla scelta che non ha più alcuna giustificazione poiché non ha più alcun fondamento obiettivo. Una tale libertà non può non generare alla fine noia, ed essere sentita come una condanna dalla quale essere liberati [si ricordi la Leggenda del grande Inquisitore]: o dallo Stato o dalla Religione o dal Potere di produzione del consenso.

Ho concluso questa prima lezione. Potrei sintetizzarla nel modo seguente.

Nella visione cristiana la libertà è un plesso di necessità e di contingenza. Di necessità: sei posto in essere da un Amore onnipotente che ti predestina alla pienezza della Vita con Lui. Di contingenza: tocca a ciascuno fare la propria scelta fondante [che propriamente non è scelta: c’è solo da consentire alla grazia dell’Amore] che poi prende corpo nelle scelte ulteriori eticamente coerenti.

Questo plesso di necessità e di contingenza eleva la libertà creata ad una grandezza divina: il "tu devi" incondizionato che risuona nella coscienza di ogni persona non è che l’eco prodotto nel cuore umano dalla presenza in esso dell’Assoluto; e la risposta umana è risposta a Dio stesso.

"Solo una solida armatura metafisica qual’è (per l’uomo) il mettersi innanzitutto prima di fronte a Dio e poi (per il credente) di fronte a Cristo, prima (dal fondo del proprio nulla) con la soggezione al Creatore e poi (con la comprensione dei propri peccati) di fronte al Salvatore – due realtà di estrema invalicabile oggettività – può permettersi la fondazione ultima della libertà" [C. Fabro, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda. Piemme, 2000, pag. 1128, n° 657] e fare della scelta nel tempo un "caso serio". 


Card.Carlo Caffarra (1938, +2017)