L’eccesso è un difetto capace di corrompere ogni virtù.
L’amor di Patria, per esempio, è una qualità, ma la statolatria è un difetto; anche la giustizia è una qualità, ma l’eccesso può trasformarla in durezza ed anche in crudeltà; l’intransigenza è una virtù, ma, condotta all’eccesso, può giungere al settarismo; e potremmo così dare mille altri esempi.
Ebbene, anche la moderazione è una qualità: dunque, è suscettibile di venir deformata dall’eccesso; essere "moderatamente moderato" è buona cosa, ma essere eccessivamente moderato è male. "Corruptio optimi pessima". La moderazione è virtù nobile, nobilissima; proprio per questo le sue deformazioni sono molto pericolose. Di principio è dunque molto importante conoscere gli eccessi della moderazione, per prevenirle o per porvi rimedio.
A questa motivazione dottrinale, valida per tutti i tempi e in ogni luogo, si aggiunge oggi una motivazione concreta tra le più pressanti. L’uomo moderno è eccessivo per essenza. Per interi decenni hanno soffiato su di lui i venti scatenati delle propagande politiche e sociali più smodate; egli ha preso gusto per l’eccesso. Dopo la guerra, in molti ambienti si è fatto uno sforzo molto opportuno per infondergli una qualche moderazione. È quindi successo un fenomeno strano, ma spiegabile: viziato nell’eccesso, l’uomo moderno ha cominciato ad eccedere nella moderazione. Da ciò deriva, almeno in parte, la popolarità di cui godono oggi molti atteggiamenti e mentalità dell’inizio del secolo, che solo venti o venticinque anni fa sarebbero stati indicati come manifestamente liberali. Ebbene, nulla potrebbe compromettere più radicalmente la causa di una santa e salutare moderazione che una simile deviazione. Nella lotta contro l’eccesso, è dunque compito utile ed urgente segnalare, analizzare, smascherare tale deviazione in alcune delle sue innumerevoli manifestazioni.
Tre sono i princìpi che l’ipermoderatismo porta all’eccesso. Tollerante, transigente, teme l’eccesso in ogni campo.. ma su questi tre princìpi è intransigente come il leggendario inquisitore, fanatico e pignolo. Si tratta di tre eccellenti princìpi: 1) la regola di sant’Agostino, "odiare l’errore ed amare gli erranti"; 2) "la virtù sta nel mezzo"; 3) la massima di san Francesco di Sales, "con un cucchiaio di miele si attirano più mosche che con un barile di aceto". Da qui deducono tutta una serie di posizioni unilaterali che riecheggiano un liberalismo più o meno dichiarato.
La caratteristica propria del moderatismo è quella di condurre in pratica ad una posizione "terzaforzista" intermedia tra la verità e l’errore, tra il bene e il male. Se ad un estremo sta la Città di Dio, i cui figli cercano di diffondere il bene e la verità in tutte le forme, e se all’altro estremo sta la Città di Satana, i cui sgherri cercano di diffondere l’errore ed il male in tutte le forme, è chiaro che la lotta tra queste due città è inevitabile: due forze, operando sullo stesso campo e in sensi opposti, debbono necessariamente combattersi. Da questo si deduce che non può darsi diffusione della verità e del bene che non implichi la lotta all’errore e del male; inversamente, non può esserci diffusione dell’errore e del male che non comporti la lotta contro la verità e il bene, contro coloro che diffondono la verità e che lavorano per il bene. È proprio ciò che non vogliono gli ipermoderati allorché portano all’eccesso la prima massima: immaginano che attaccando le idee, e solo quelle, si possa giungere alla vittoria; come se le idee fossero realtà concrete, suscettibili di venir attaccate e sconfitte! Le idee esistono invece nella mente di coloro che le professano; sconfiggerle significa convertire i loro seguaci, oppure, nel caso che questi si ostinino, denunciarli, smascherarli, privarli di ogni influenza.
Ebbene, il "moderato" fino all’eccesso non vede nulla di tutto ciò. Risoluto ad attaccare le idee solo in tesi, si lancia in battaglia contro due avversari: 1) le idee degli anticattolici; 2) quei cattolici che lottano anche sul campo dei fatti concreti. In entrambi i casi, si comporta come un’autentica "terza forza".
Beninteso, il seguace del moderatismo della "terza forza" applica i suoi princìpi anche al caso della lotta tra i cattolici tradizionalisti, docili al Magistero della Chiesa, e coloro che professano gli errori modernisti e progressisti. Egli vuole combattere solo le dottrine: ogni volta che bisogna affermare che qualcuno sbaglia, ogni volta che bisogna togliere a qualcuno una carica in cui la sua influenza potrebbe risultare pericolosa, allora egli non è d’accordo: questo significherebbe mancare di carità, in quanto trasferisce la lotta dal campo delle idee a quello delle persone. Questo, nelle linee generali, è il cattolico della "terza forza".
Contraddizioni del "moderatismo"
Egli però ha una caratteristica davvero curiosa: la saggia massima di sant’Agostino viene da lui applicata in una sola direzione. Quando tratta con coloro che professano dottrine velatamente o apertamente erronee, il cattolico "terzaforzista" è "moderato" fino all’eccesso; per contro, quando si scontra con quelli che lottano per la purezza assoluta della dottrina, allora accade sempre che attacchi anche, e principalmente, le persone! […]
Qual è il risultato di questa formidabile e feroce contraddizione? Non potrebbe essere più chiaro: i responsabili del male risultano circondati da ogni stima, da ogni simpatia, promossi ad ogni posizione-chiave per diffondere l’errore; al contrario, i difensori della verità restano isolati, oggetto di antipatia, allontanati da ogni posto strategico. In altre parole, tutto il peso dell’influenza della "terza forza" concorre alla vittoria di quelle idee ch’essa – almeno nel mondo della luna – condanna!
Un’idea fissa: l’equidistanza
Ma, dirà qualcuno, la virtù non sta nel mezzo? Se la "destra" è un estremo e la "sinistra" ne è l’altro, la virtù Non deve stare a media distanza tra l’una e l’altra? Sarà bene iniziare a verificare se la posizione della "terza forza", tipica dei "moderati" fino all’eccesso, sta veramente nel mezzo; infatti, se si rivolgono tutti i furori in una direzione e tutte le indulgenze in quella opposta, è molto difficile sostenere che si è posto il cuore ad uguale distanza tra l’uno e l’altro estremo.
Nulla sarebbe più equivoco dell’immaginare che, date due opinioni contrarie, la virtù stesse sempre nel termine medio tra le due. Così, se uno è favorevole alla decapitazione per punire l’omicidio, mentre l’altro preferisce la semplice prigione, non si deve da questo dedurre che il giusto consista non nel tagliare la testa all’omicida, ma nel tagliargli le gambe. Allo stesso modo, in un gruppo in cui un cattolico sostiene che la Gerarchia ecclesiastica è composta dal Papa, dai Vescovi e dai sacerdoti, e un presbiteriano nega Papa e Vescovi ammettendo solo i sacerdoti, la verità starebbe nel mezzo, ossia nell’anglicano che, pur ammettendo sacerdoti e Vescovi, nega il Papa. Se un ladro pretende appropriarsi di tutto il denaro contenuto nel portafoglio della sua vittima, mentre questa sostiene che il ladro non ha alcun diritto a simile pretesa, la virtù consisterebbe nel mezzo, cioè nel concedere al ladro la metà del denaro. Tra un cattolico che afferma l’esistenza delle tre Persone della Santissima Trinità, e un eretico che ammette in Dio una sola Persona, la verità starebbe nel mezzo, nell’accettare cioè l’esistenza di due Persone divine.
Nel giusto senso della massima, è certo che la verità e la virtù stanno nel mezzo: ma non in un medio termine qualsiasi, il che sarebbe assurdo. Il "mezzo" di cui parla la massima esprime una posizione di equilibrio perfetto, dal quale sia escluso ogni eccesso teoricamente possibile, ogni errore immaginabile, nel quale vi sia soltanto verità e bene.
Il "mezzo" sta nella virtù
Veniamo agli esempi. Uno studente che ottiene una o più bocciature agli esami è certamente un cattivo studente; un altro che ottiene come voto 6 in tutte le materie è uno studente mediocre; un altro che ottiene voti distinti in tutto il corso e consegue tutti i premi, è un eccellente studente. Quale dei tre sta nel termine medio ideale? Se la virtù sta nel mezzo, il termine medio sta nel più virtuoso; il più virtuoso, dunque, non è quello che ottenne 6 in tutti gli esami, bensì quello che ottenne 10. Questo ci conduce ad una formulazione che ci farà comprendere meglio la celebre massima secondo cui la virtù sta nel mezzo.
Vogliamo sapere dove sta il "mezzo"? Sta nella virtù. Da ciò deriva che quanto più si avanza nella virtù, tanto più si sta nel "mezzo": un "mezzo" ben diverso, ovviamente, dalla medietà, dalla mediocrità, o dalla idiota equidistanza tra bene e male. Riguardo la purezza, il "mezzo" sta nell’imitare san Luigi Gonzaga, che fuggiva ogni mondanità e tutto quanto avesse la minima ombra di male. Riguardo l’ortodossia, il "mezzo" sta nell’imitare san Tommaso, sant’Ignazio di Loyola, il santo inquisitore Pio V. Riguardo l’orazione, sta nel seguire santa Teresa d’Avila e santa Teresina del Bambin Gesù. riguardo la combattività, nell’imitare san Bernardo, il santo delle Crociate, o santa Giovanna d’Arco.
Se in un estremo sta il Cielo e nell’altro l’inferno, il "mezzo" in cui trovare la virtù non sta nell’equidistanza tra il Trono di Dio e lo scranno di Satana, cioè in quel limbo di reprobi che Dante vide all’entrata dell’inferno, "a Dio spiacenti ed ai nimici sui", ossia i timidi, i mediocri, gli indifferenti che condussero una vita "sanza infamia e sanza lodo" (Inf., III, 21 ss.). Il "mezzo" sta anzi in uno dei due estremi, cioè nel Cielo. Se vogliamo sapere dove sta il "mezzo", abbiamo una sola via: domandare alla Chiesa dove sta la virtù.
Miele e aceto
Ma, dirà qualcuno infine, non è certo che con un cucchiaio di miele si attirano più mosche che con un barile di aceto? Lasciamo pure da parte la "terza forza" e le sue riprovevoli incoerenze; non sarebbe tuttavia meglio che quelli della "destra" abbandonassero definitivamente i metodi polemici e cercassero di convincere i loro avversari con metodi accattivanti?
Di principio, l’affettuosità è ciò che attrae di più gli uomini; se ne deve dedurre che dev’essere l’unico atteggiamento tipico dell’apostolato? Se santa Giovanna d’Arco avesse voluto scacciare gli inglesi a forza di carezze, avrebbe ottenuto successo? San Bernardo avrebbe forse ottenuto miglior risultato se, invece di predicare la Crociata, avesse organizzato nella Cristianità una "giornata di buona volontà" verso i mussulmani? San Pio V si sarebbe forse comportato più cristianamente, inviando a Lepanto, al posto delle galee di Don Giovanni d’Austria, alcuni esperti in sorrisi pacifisti?
Da questi e molti altri esempi si deduce chiaramente che un santo, pur preferendo sempre che sia possibile impiegare metodi persuasivi, può essere obbligato a usare metodi molto più severi; questo, per due ragioni principali. Innanzitutto, non sempre nell’apostolato si tratta di convertire: dal momento in cui una conversione si rivela inattuabile a causa dell’ostinazione del peccatore, è necessario togliergli i mezzi che potrebbero condurre altre anime alla perdizione; e questo ben raramente lo si ottiene impiegando semplicemente i metodi di persuasione. D’altra parte, una conversione non sempre viene ottenuta mediante parole soavi: la storia è piena di esempi di anime che furono toccate dalla Grazia soltanto allorché udirono parole dure, apostrofi terribili, minacce tremende; basta pensare al caso del Re Davide.
È quindi vero che la soavità attrae più anime della severità, ma è ugualmente certo che vi sono anime che solo dalla severità possono essere convertite, e stati interiori, situazioni di crisi, che solo la severità può risolvere. Detto ciò, si deve affermare un principio essenziale, che sarebbe grave errore dimenticare o sottovalutare: una tecnica di apostolato fatta solo di dolcezza è tanto sbagliata quanto quella fatta esclusivamente di severità.
Come dunque comportarsi? In qual misura impiegare ciascuno di questi due indispensabili ingredienti dell’attività apostolica? Quanto sale? E quanto zucchero? A prima vista il problema parrebbe insolubile; in realtà è di facile soluzione. tutto sta nel distinguere accuratamente la dolcezza virtuosa da quella viziosa, e nel fare lo stesso con la severità. "Dai loro frutti li riconoscerete", afferma Nostro Signore: possiamo dirlo anche per i metodi di apostolato.
Quando la soavità dell’apostolo tende a infiammare le anime di amore per la Fede, per la purezza, per la vita mortificata, di disprezzo dei beni terreni, di fiducia senza limite nella Chiesa di Dio, di odio inesorabile per il peccato… quando insomma la soavità converte e santifica, è retta, virtuosa e santa. Ma quando la soavità dell’apostolo impantana ulteriormente il peccatore nel suo peccato, infondendogli una presuntuosa speranza di salvarsi, ottenebrandogli la coscienza della gravità della sua colpa, inducendolo a considerare con indifferenza la collera di Dio, conducendolo ad odiare le persone virtuose, a vantarsi delle sue massime sensuali e mondane, a ribattere con sofismi gli insegnamenti della Fede e del Magistero della Chiesa, questa soavità proviene dal demonio.
Quando la severità è turbolenta, irritata, contraddittoria – ora rimproverando per una sciocchezza, ora sorvolando su un fatto grave –, quando si esercita più in difesa dei diritti (reali o supposti) della persona severa, che non in difesa dei diritti di Dio e della Chiesa, quando non si placa davanti ad un pentimento sincero, quando ha per fine non edificare ma sfogarsi, quando non accetta prontamente e docilmente i freni dell’obbedienza, quando non è rivolta a risvegliare ammirazione o attrazione per la virtù, quando infonde un timore che non converte ma scoraggia, questa severità non viene da Dio. Ma quando essa è pienamente ragionevole, anche nelle sue affermazioni più radicali, quando si fonda totalmente sui princìpi e non su malumori momentanei, quando mira alla difesa dei diritti e della dottrina della Chiesa e considera tutto "sub specie aeternitatis" invece di orientarsi secondo fobie o antipatie personali, quando accetta di buon grado l’obbedienza, anima la virtù, allontana dal peccato, attrae le anime a Dio, allora è un dono del Cielo.
L’essenziale è la santità
Considerato ciò, l’essenziale non è l’essere dolce o severo, ma l’essere santamente dolce o santamente severo. Severità e dolcezza dipendono in gran parte dal modo di essere, e "nella casa del Padre Celeste vi sono molte dimore"; dice la Scrittura che "lo Spirito soffia dove vuole", e che Dio dà a ciascuno i doni che preferisce: ad alcuni darà il dono di attrarre principalmente con la soavità, come san Francesco di Sales, ad altri darà il dono di attrarre a Lui col vigore di una polemica infuocata e inflessibile, come san Girolamo. Non si opponga santo contro santo, altare contro altare, virtù contro virtù; si comprenda anzi che dove sta la santità sta Dio, fonte di ogni bene. Si sia pure più severi che soavi, o più soavi che severi: l’essenziale è che lo si sia santamente. Quello che si pretende è la santità, ossia la perfetta adesione alla dottrina cattolica e la perfetta pratica dei Comandamenti. Nell’uno o nell’altro caso, per quanto si giunga agli estremi, se agiremo santamente staremo operando con moderazione.
Ripetiamo: la virtù sta nel mezzo, e questo famoso mezzo sta nella virtù. E se non stesse nella virtù, dove potrebbe stare se non all’inferno?
Plinio Corrêa de Oliveira
(Fonte: PLINIOCORREADEOLIVEIRA.it)