Intervista ad Alessandro Gnocchi

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Vittorio Feltri, pur dichiarandosi ateo, dice che non bisogna mai parlare male del Papa e cita a mo’ d’esempio il caso di Umberto Bossi, che nel 2004 attaccò Giovanni Paolo II e pochi giorni dopo fu colpito da ictus cerebrale. «Essendo cattolico, le superstizioni non mi sfiorano», sorride mesto Alessandro Gnocchi, che firma con Giuliano Ferrara e Mario Palmaro il saggio Questo Papa piace troppo, «un vademecum al vetriolo» – così lo presenta l’editrice Piemme – contro Jorge Mario Bergoglio: «I gesti e le parole di Papa Francesco sono un campionario di relativismo morale e religioso; le sue esibizioni di ostentata povertà stucchevoli e ben poco francescane; la sua proclamazione dell’autonomia della coscienza in palese contrasto con il catechismo e il magistero dei papi precedenti».

Anche a Gnocchi, per la verità, è accaduto qualcosa di terribile. Mercoledì 12 marzo, appena 24 ore dopo che il volume era arrivato nelle librerie, ha dovuto accompagnare al camposanto Palmaro, 45 anni, l’amico di una vita, del quale nel 1998 era stato testimone di nozze insieme con Eugenio Corti, autore del celebre romanzo Il cavallo rosso. «Martedì 4, ormai consumato dal cancro al fegato, ha voluto inviarmi alcune integrazioni per il nostro articolo sulla relazione con cui il cardinale Walter Kasper aveva aperto il concistoro sulla famiglia, uscito l’indomani sul Foglio: conservo le note battute al computer con caratteri rossi come se fossero una reliquia. Giovedì 6 ha fatto in tempo a vedere la copia staffetta diQuesto Papa piace troppo: era felice. Domenica 9 ha reso l’anima a Dio».

Ma è il modo in cui quest’anima è tornata a Dio che forse dovrebbe impressionare, più del libro, l’augusta persona oggetto degli strali di Gnocchi e Palmaro. «Sono arrivato a casa di Mario alle 19.30. Al capezzale c’erano la moglie Annamaria con i figli Giacomo, 14 anni, Giuseppe, 12, Giovanna, 8, Benedetto, 7, la matrigna, perché la madre morì nel 1968 partorendolo, e due vicine. L’agonia è stata dolorosa, tremenda. Alle 22 abbiamo cantato il Salve Regina. Alle 22.10 è spirato».

Papa Francesco sapeva che quel suo censore, laureato in giurisprudenza alla Statale di Milano con una tesi sull’aborto procurato, docente di filosofia teoretica, etica e bioetica al Pontificio ateneo Regina Apostolorum e di filosofia del diritto all’Università Europea di Roma, era gravemente malato, senza speranza, da quasi due anni. E lo scorso 1° novembre, festa di Ognissanti, intorno alle 18 gli telefonò nella sua casa di Monza, senza passare per il centralino del Vaticano. «Sono Papa Francesco», si presentò. «La riconosco dalla voce, Santo Padre», rispose con candore la moglie, «attenda un attimo». Non disponendo di un cordless, la signora andò a chiamare il marito, che giaceva nel letto. «So che sta male, professore, e prego per lei», si sentì confortare Palmaro, dopo aver raggiunto con fatica la cornetta. «Mario fu molto rincuorato dalla chiamata», racconta Gnocchi. «Al momento del congedo, disse a Francesco: “Santità, forse lei saprà che le ho dedicato alcuni rilievi assai severi. Voglio però confermarle che la mia fedeltà al successore di Pietro resta intatta”. Il Pontefice gli rispose: “Penso che abbia scritto per amore verso la Chiesa. E comunque le critiche fanno bene”».
Adesso guardi, a pagina 35, il capitolo iniziale dell’ultimo libro, con quell’intestazione assai più assertiva del titolo, «Questo Papa non ci piace», e quella firma commerciale, «di Gnocchi & Palmaro», e potresti scambiarlo per un copione farsesco alla Garinei & Giovannini o per un pamphlet ingiurioso. Invece la poco premiata ditta Gnocchi & Palmaro, ben nota ai lettori del Giornale, è stata un’autentica fucina di libri – una ventina – sempre molto documentati, rigorosissimi, dettati soltanto da ardore apologetico nella difesa della Chiesa, della tradizione, della dottrina e della morale, in una parola di quello che un tempo si definiva «depositum fidei».
Gnocchi, 54 anni, bergamasco di Villa d’Adda, sposato, tre figli, è giornalista professionista dal 1992. All’anulare sinistro porta, unito alla fede nuziale, un rosario d’oro di forma circolare; un altro rosario da frate trappista, con i grani di legno che sembrano chicchi di caffè, il teschio ai piedi della croce e otto medagliette sacre ciondolanti, lo tiene nella tasca dei pantaloni. Laureato in filosofia alla Cattolica, ha scritto come free-lance per Gente e Oggi prima d’essere assunto a Historia e poi a Tv Sorrisi e Canzoni. Oggi lavora per i periodici Mondadori. È considerato il maggior studioso di Giovannino Guareschi, al quale ha dedicato cinque saggi, oltre a due antologie scritte in collaborazione con Palmaro. «L’amicizia con Mario nacque proprio da una recensione che dedicò nel 1995, sul Cittadino di Monza, al mio primo saggio sull’inventore di don Camillo e Peppone».

Perché è innamorato di Guareschi?
«Don Camillo fu l’unico libro che mio padre , un operaio, mi regalò. Avevo 14 anni. Non ho più smesso di leggerlo».

Com’è approdato al giornalismo?
«Avrei voluto fare il ricercatore, ma l’università non garantiva il pane. Cominciai a collaborare al Candido, il settimanale fondato da Guareschi. Due colleghi, Maurizio Cabona e Alberto Pasolini Zanelli, mi trovarono un posto nella segreteria di redazione del Giornale diretto da Indro Montanelli. Era il 1987».

In che modo si definirebbe?
«Cattolico tradizionalista. Partecipo alla messa tridentina che si celebra la domenica alle 9 nella chiesa di Santa Maria della Neve a Bergamo. Non provengo da una famiglia bigotta. A 8 anni feci le prove per diventare chierichetto, ma resistetti solo due settimane».

Che cosa non la convince di Papa Francesco?
«Il consenso generale di cui gode. Il Vangelo insegna: “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi”. Luca 6, 26. Mi allarma l’assoluta omogeneità con i mass media, ai quali è sensibilissimo. Crede di servirsene, invece lo usano in chiave mondana. Ormai è costretto a dire solo ciò che s’aspettano da lui».

Che altro?
«Ha demolito lo spirito della liturgia. Porta una croce pettorale che “deve” sembrare povera. In realtà è d’argento, non di ferro. Ma pare fatta apposta per attirare l’attenzione sulla persona che la indossa, più che su Colui che vi è appeso. Anche quell’incomprensibile decisione di abitare nella Casa Santa Marta, anziché nel Palazzo apostolico… È come se rimproverasse ai predecessori d’essere stati fuori posto».

Dice che là si sarebbe sentito solo.
«Ma il Papa è solo! L’uomo più solo che esista al mondo. Dei precedenti pontefici percepivo che erano diversi da me. In Francesco non colgo il senso del sacro».

«La Chiesa è un ospedale da campo dopo una battaglia», ha spiegato, non una fortezza. «È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti».                                                               «Come dire che al malato non va imposta nessuna terapia. Invece io penso che la medicina per chi è lontano da Cristo sia molto amara. È l’aspetto forse più inquietante del suo magistero: far credere che vi sia un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia. Ma il Padreterno è prima di tutto giusto nel distribuire premio e castigo. Se fosse solo buono, non avremmo motivo di migliorarci. Quando poi il Papa in un’intervista a Eugenio Scalfari arriva a dire “io credo in Dio, non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico”, è arduo per L’Osservatore Romano o Avvenire dare la colpa a una frase estrapolata dal contesto».

Perché avrà invitato a pranzo proprio Scalfari?
«Qualche consigliere gli avrà fatto credere che La Repubblica era il pulpito perfetto per farsi ascoltare dai non credenti. Ma quella su Dio che non sarebbe cattolico è un’affermazione che acquista valore dottrinale anche se raccolta da un giornalista, perché nel mondo secolarizzato di oggi un’intervista conta assai più di un’enciclica, forma le coscienze. Il cattolico medio è ignorante, pensa che il Papa sia infallibile sempre, anche quando non parla ex cathedra. Ecco, Francesco ha trasformato un quotidiano laicista in cattedra, dando ragione a Marshall McLuhan, secondo il quale il mezzo è il messaggio. La stampa s’è erta a cathedra e veicola il verbo pontificio che più le fa comodo».

In meno di sei mesi Francesco ha dato interviste anche alla Civiltà cattolica, alla Stampa, al Corriere della Sera, alla radio argentina Bajo Flores.
«Dovrebbe parlare meno. Il silenzio è eloquente. Giovanni Paolo II evangelizzò di più con la sua muta agonia che non con tutti i viaggi apostolici. So di molti atei che si sono convertiti nel vederlo inchiodato alla croce della sofferenza».

Dall’intervista che Leone XIII concesse nel 1892 a Caroline Rémy del Figaro a quella che Paolo VI rilasciò nel 1965 ad Alberto Cavallari del Corriere, trascorsero 73 anni. Ora non passa mese senza un’uscita pubblica.
«Quando lavoravo a Historia, un collega propose: “Dovremmo intervistare il Papa”. Il caporedattore Gian Piero Piazza, un non credente, lo zittì: “Il Papa non concede interviste perché è un re”. Aveva colto in pieno la maestà del ruolo».

Ma a un cattolico è consentito criticare il Sommo Pontefice?
«È addirittura un obbligo sancito per i laici dal canone 212, paragrafo 3, del codice di diritto canonico: “In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli”. Non creda che sia stato facile, per Palmaro e per me, dire a nostro padre che cosa pensassimo di lui».

E nemmeno conveniente.
«Mi ha turbato il modo in cui padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, ci ha cacciati dopo 10 anni di interventi trasmessi gratis et amore Dei. Non erano neppure passate 24 ore dalla sepoltura di Mario quando l’ho sentito infierire via etere, vantandosi del “bel repulisti” compiuto fra i conduttori: “Qualcuno ho dovuto farlo scendere dalla cattedra e metterlo su un semplice seggiolino”. Fra tanti denigratori, nessuno, neppure un prete, ha presupposto la nostra buona fede. Siamo stati inondati di mail e telefonate d’insulti, ci hanno cancellato le conferenze già fissate in giro per l’Italia. Non potendo demolire gli argomenti, sono state demolite le persone».

Sa che cosa diceva Nello Vian, amico di Paolo VI e padre di Giovanni Maria Vian, quando il futuro direttore dell’Osservatore Romano da giovane osava avanzare qualche timida critica a un pontefice in carica? «Il Papa è il Papa e tu sei un furfante!».
«Si vede che conosceva bene suo figlio. Battuta a parte, capisco l’argomento: il Papa ha sempre ragione. Vorrei tanto che fosse così. Ma bisognerebbe andare a rileggersi la profezia, tanto cara a padre Fanzaga, che la Madonna fece nel 1846 ai ragazzi francesi di La Salette, là dove dice che “Roma perderà la fede”».

Come mai le gerarchie sono sempre pronte a bastonare i difensori della tradizione e a rincorrere gli atei?
«Me lo chiedo anch’io. Ho visto Giovanni Zenone, editore di molti dei libri che ho scritto con Palmaro, relegato al ruolo di bidello e poi estromesso dall’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, che dialogava in pubblico con Margherita Hack, ha giustificato la rimozione con presunte “carenze pedagogiche e didattiche”. Eppure Zenone, sposato, 6 figli, laureato, ha più titoli di tutti i suoi colleghi, è assiduo ai sacramenti, e tre mesi dopo il provvedimento ha ricevuto in Vaticano il premio Giuseppe Sciacca dalle mani del cardinale Darío Castrillón Hoyos con questa motivazione: “Docente di straordinaria perizia e qualità pedagogiche, ha dato impulso alla diffusione di una sana cultura teologica e storica, scevra da compromessi ideologici e unicamente orientata a superiori finalità spirituali nel rispetto della verità oggettiva, secondo il perenne insegnamento del magistero della Chiesa”».

Ma lei che cosa si aspettava da un pontefice nato e vissuto in un Paese dove il 70% dei minori vive nell’indigenza e ogni 5 minuti una ragazza madre fra i 13 e i 17 anni partorisce un bimbo concepito per caso?
«Chi diventa Papa, non è più lui: è il vicario di Cristo sulla terra, non l’arcivescovo di Buenos Aires. Anche se si chiama Francesco, dovrebbe tenere ben presente che i diseredati non sono più buoni per il solo fatto d’aver fame. La miseria non rende migliori. È il primo insegnamento che don Camillo impartisce a don Chichì, curato progressista: “La povertà è una disgrazia, non un merito”».


(Fonte: quotidiano IL GIORNALE, intervista di Stefano Lorenzetto – 23.3.2014)


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