Pena di morte

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La pena di morte secondo la dottrina cattolica tradizionale

E’ un fatto del tutto evidente che è sempre stata ritenuta giusto, anche nelle società più cristiane, salvo che per un certo numero di teorici in generale moderni, che l’autorità politica punisse con la morte certi crimini. E i dati della Rivelazione confermano su questo punto i dati naturali del senso comune.
Quando il Decalogo vieta di uccidere (1), sottintende: ingiustamente. Poiché vediamo che il Vecchio Testamento prescrive a più riprese la pena di morte (2). Su questo punto, il Nuovo Testamento non ha abolito il Vecchio. San Paolo, parlando dell’autorità politica evoca la spada, strumento della pena di morte: «poiché essa [l’autorità] è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male» (3). 

E nella Città di Dio, Sant’Agostino commenta così questi passi della Scrittura: «La stessa autorità divina che ha detto: Tu non ucciderai, ha stabilito certe eccezioni al divieto di uccidere l’uomo. Dio ha ordinato allora, sia con la legge generale sia per precetto privato e temporaneo, che si applichi la pena di morte. Ora, questi il cui ministero gli è dato dall’autorità, non è veramente omicida, ma è solo uno strumento, come la spada con cui egli colpisce. Quindi, coloro che su ordine di Dio hanno fatto la guerra o coloro che hanno punito dei criminali nell’esercizio del potere pubblico, conformemente alle leggi divine, e cioè conformemente alla decisione della più giusta delle ragioni, costoro non hanno per niente violato il Tu non ucciderai.» (4).

Anche Papa Innocenzo III non fa che difendere una verità biblica e tradizionale quando propone agli eretici che vogliono rientrare nella Chiesa una professione di fede che dichiara, tra altre verità, che «il potere secolare può, senza peccato mortale, esercitare il giudizio di sangue, posto che esso castighi per giustizia e non per odio, con saggezza e non con precipitazione» (5). 
Leone X condanna ugualmente l’affermazione di Lutero secondo la quale: «bruciare gli eretici è contrario alla volontà dello Spirito Santo» (6). 
Leone XIII, quando condanna il duello, riconosce il diritto dell’autorità pubblica di infliggere la pena di morte (7). 
Infine, Pio XII dichiara con una precisione estremamente rimarchevole: «Anche quando si tratta dell’esecuzione di un condannato a morte, lo Stato non dispone del diritto dell’individuo alla vita. In questo caso è riservato al potere pubblico privare il condannato del bene della vita, in espiazione della sua colpa, dopo che col suo crimine egli si è spossessato del suo diritto alla vita» (8).

San Tommaso (9) ha pensato che si possa perfettamente legittimare la pena di morte, anche nel diritto naturale, senza fare appello ai dati della Rivelazione soprannaturale. Questa legittimazione deriva da due princípi, assolutamente necessari l’uno all’altro. Il primo (10) è la necessità del bene comune. Come è possibile, per salvare il corpo, amputare un membro in cancrena che minaccia l’insieme, così si potrà, per il bene di tutti, amputare dal corpo sociale uno dei suoi membri particolari quando questi è un pericolo per tutti, se non altro che in ragione del genere di crimini che il suo esempio autorizza, se non sono sufficientemente puniti. Ma questo primo principio, sufficiente per l’amputazione di un membro del corpo fisico, incontra nella sua applicazione al corpo sociale una difficoltà che lo porrebbe in difetto, se non si facesse intervenire un altro principio che lo completa. Nel corpo fisico, infatti, solo la persona è soggetto di diritto, mentre le diverse membra del suo corpo gli appartengono, senza che abbiano il minimo diritto particolare. Se si considera che la persona non possa farne assolutamente quello che vuole, questo è perché qui il suo diritto è partecipato da quello di Dio e concerne l’utilizzazione delle sue membra in rispondenza con le loro finalità naturali. Ma ciò non toglie che, nel quadro di questa limitazione essenziale, tale persona è padrona di tutto mentre le membra non lo sono di niente. Di contro, nel corpo sociale, quelli che si designano analogicamente come «membri» della società, sono delle persone che hanno su se stesse e sulla loro vita corporale un diritto anteriore a quello che ha anche la società. Esse non fanno parte della società, che è un tutto ordinato, allo stesso modo che le membra fanno parte del corpo, che è un tutto fisico, poiché «l’uomo fa parte della comunità politica secondo tutto quello che egli è» (11). Questo bene, che è la loro vita, appartiene, dopo Dio, innanzi tutto ad esse e non innanzi tutto allo Stato. Ne deriva che il diritto dello Stato non può prevalere sul loro diritto personale. Bisogna dunque fare intervenire un altro principio (12), secondo il quale, con il crimine l’uomo decade dalla sua dignità personale: «Con il peccato l’uomo si allontana dall’ordine prescritto dalla ragione; è per questo che egli decade dalla dignità umana che consiste nel nascere libero e nell’esistere per sé; in questo modo egli cade nella servitù che è quella delle bestie, di modo che si può disporre di lui secondo quanto è utile agli altri». Facendo uso della sua libertà contro la natura e contro Dio, egli in effetti esce dal quadro entro il quale il suo diritto si esercita autenticamente. Merita quindi un castigo dell’ordine stesso dei beni di cui usa malamente. Da quel momento, compete non solo a Dio, ma all’autorità umana privarlo non tanto del diritto alla vita – poiché questo diritto non dipende dall’autorità e il criminale l’ha già perso in ragione del suo crimine – ma del bene della vita corporale, sulla quale egli non può più rivendicare il suo diritto personale. Questo è ciò che dice esattamente Pio XII, riprendendo la riflessione di San Tommaso: «è riservato al potere pubblico privare il condannato del bene della vita, in espiazione della sua colpa, dopo che col suo crimine egli si è spossessato del suo diritto alla vita».

La dottrina della Chiesa, confermata dai lumi della ragione teologica, stabilisce né più né meno che, in ragione della legge naturale, l’autorità pubblica ha il diritto di infliggere la pena di morte. Questo non significa che la stessa legge naturale esiga che l’autorità eserciti questo diritto, e ancor meno che essa determini dei casi in cui questo diritto si imporrebbe. In concreto, la pena di morte sarà sempre, nel quadro di una legislazione, una determinazione del diritto positivo umano, della legge civile, e quindi soggetta a modifica, evoluzione, limitazione. E’ dunque possibile, e non sarebbe illegittimo, sostenere che questo genere di pena non è opportuna in un dato contesto, e così reclamarne l’abolizione sul piano della legge umana civile. Ma resta il fatto che l’autorità pubblica ha sempre il diritto di mantenere la pena di morte o di ripristinarla se se ne fa sentire il bisogno. E se l’opportunità richiede di non esercitarla, compete alla stessa autorità la valutazione di questa opportunità. 
Tuttavia, quelli che fanno valere i loro argomenti in favore della soppressione della pena di morte, abitualmente hanno il torto di voler provare che essa sarebbe contraria al diritto naturale o quanto meno, quando non hanno un’idea molto chiara di questo diritto (cosa che è frequente), contraria a quello che essi chiamano dignità della persona umana o valore incondizionato della vita.
Questi argomenti non sono quelli buoni: la pena di morte è conforme al diritto naturale. Altra cosa è la determinazione positiva di questo diritto, che ha luogo con la legge civile. Se non è illegittimo reclamare l’abolizione della pena di morte, sarebbe falso e condannabile farlo in nome dello stesso diritto naturale; o in nome del Vangelo e della carità, che non possono rinnegare questo diritto naturale.


Don Jean-Michel Gleize, FSSPX

 


1 – Esodo, XX, 13.
2 – Levitico, XX, 2; XX, 9-10; XX, 27; XXIV, 16-17.
3 – Romani, XIII, 4.
4 – Sant’Agostino, La Città di Dio, libro I, capitolo 21, Migne, t. XLI, col. 35.
5 – Innocenzo III (1198-1215), Lettera Ejus exemplo, indirizzata all’arcivescovo di Tarragona, del 18 dicembre 1208, DS 795.
6 – Leone X (1510-1522), Bolla Exsurge Domine, del 15 giugno 1520, DS 1483.
7 – Leone XIII (1878-1903), Lettera Pastoralis officii, ai vescovi di Germania e di Austria, del 12 settembre 1891, DS 3272. Il Papa dice in effetti che «le due leggi divine, quella che è stata proclamata alla luce della ragione naturale e quella che lo è stata dalle Scritture composte sotto l’ispirazione divina, vietano formalmente che qualcuno, al di fuori di una causa pubblica, ferisca o uccida un uomo».
8 – Pio XII (1939-1958), Discorso ai partecipanti al I Congresso Internazionale di Istopatologia del Sistema Nervoso, 13 settembre 1952. https://w2.vatican.va/content/pius-xii/fr/speeches/1952/documents/hf_p-xii_spe_19520914_istopatologia.html
9 – Summa Theologiae, 1a2ae, questione 94, articolo 5, ad 2; questione 100, articolo 8, ad 3; 2a2ae, questione 64, articolo 2.
10 – 2a2ae, questione 64, articolo 2, corpus.
11 – Summa Theologiae, 1a2ae, questione 21, articolo 4, ad 3.
12 - 2a2ae, questione 64, articolo 2, ad 3.


Documento stampato il 09/10/2024