Crisi della Chiesa: una nuova concezione del sacerdozio
1. Delle riforme che toccano il cuore del sacerdozio
Poiché il sacerdote si definisce tramite il Sacrificio, ogni attacco al Sacrificio rimette in causa l’identità stessa del sacerdote. Ora, dopo il Concilio (Vaticano II) , la riforma liturgica, sia della Messa che del rituale d’ordinazione, tocca l’aspetto santificatore del sacerdote. In questo senso, essa non è priva d’incidenza sull’idea che si fanno i sacerdoti del loro sacerdozio.
La nuova Messa: un sacerdote senza Sacrificio?
Se il rito della Messa più venerabile non basta, da solo, a far vivere delle realtà sacre, un rito impoverito ed equivoco non può, alla lunga, che indebolire in lui lo spirito sacerdotale. Ora la Messa detta di Paolo VI ha attenuato l’aspetto sacrificale di questo atto liturgico.
Bisogna pur riconoscere che la vera nozione del sacerdozio così come la stessa ragion d’essere del sacerdote cominciavano già a scomparire dalla mente stessa dei sacerdoti ben prima del concilio. Ahimè! Quanti sacerdoti celebravano il Santo Sacrificio della Messa senza più sapere esattamente cosa facevano, agendo un po’ macchinalmente, come dei semplici funzionari della Chiesa, mentre tutta la grandezza, tutta la ragion d’essere, tutta la gioia, tutta la consolazione, tutta la forza del sacerdote si trovano nel Santo Sacrificio della Messa! Se il sacerdote non realizza più quelle cose, allora non è più un sacerdote.
Ora, invece di ritornare a quelle nozioni fondamentali della fede cattolica concernenti i sacri misteri, si è voluto introdurre uno spirito nuovo. Così, lungi dal ridare ai sacri misteri il loro vero significato, li si è avvicinati alla cena protestante, distruggendo con ciò quello che c’era di misterioso, di grande, di divino, di sacro in loro.
Se si cambia profondamente la liturgia, si cambia il sacerdozio, perché il sacerdozio è interamente orientato verso la liturgia.
E’ la definizione stessa del sacerdozio, il sacerdote è fatto per il Sacrificio. Se si comincia a snaturare il Sacrificio, si snatura il sacerdozio e perfino, vado oltre, se si arriva a distruggere questa nozione di Sacrificio della Messa, non c’è più Chiesa cattolica perché la Messa è il tesoro misterioso, insondabile, ineffabile che Nostro Signore ha dato alla Chiesa.
Il Nuovo ordo missæ non si presenta, in ogni caso ufficialmente, nella sua definizione, come un sacrificio propiziatorio. Uomini di Chiesa hanno fatto silenzio su queste verità fondamentali: il Sacrificio di Nostro Signore, la grazia santificante nelle nostre anime e la vita di Gesù nelle anime. I protestanti negano queste verità. Allora, per piacere loro, hanno cancellato da tutti i nostri riti, da tutta la nostra liturgia, quello che esprimeva queste verità fondamentali della nostra fede cattolica.
C’è quasi una relazione trascendentale tra il sacerdozio e la Messa, perché il sacerdote è colui che offre il Sacrificio, ed il Sacrificio non può essere offerto senza il sacerdote. Non si può concepire il Sacrificio senza il sacerdote e non si concepisce il sacerdote senza il Sacrificio. Quindi c’è una relazione trascendentale. Perché tutti questi sacerdoti hanno abbandonato il proprio sacerdozio, se non perché appunto sono stati colpiti al cuore dalla distruzione del Sacrificio della Messa? E’ evidente. I fatti parlano, ci dimostrano che si perde la fede nelle realtà dogmatiche essenziali della Messa.
Nella religione cattolica, è il sacerdote che celebra la Messa, è lui che offre il pane ed il vino. La nozione di presidente è adottata direttamente dal protestantesimo. Il vocabolario segue il cambiamento della coscienza. Una volta si diceva: “Mons. Lustiger celebrerà una Messa pontificale”. Mi hanno riferito che a Radio Notre-Dame, la frase usata attualmente è: “Jean Marie Lustiger presiederà una concelebrazione.”
Il nuovo rito d’ordinazione
Un lettura attenta del nuovo rito d’ordinazione rafforza l’idea che il sacerdote non è prima di tutto un santificatore, mentre invece la sua missione principale è di offrire a Dio il Santo Sacrificio.
Il rituale, prima della riforma, faceva dire al vescovo: “Ricevete il potere d’offrire a Dio il Santo Sacrificio e di celebrare la santa Messa, sia per i vivi che per i defunti, nel nome del Signore”. Poco prima, egli aveva benedetto le mani dell’ordinando pronunciando queste parole: “ Perché tutto ciò che esse benedicono sia benedetto, e tutto ciò che esse consacrano sia consacrato e santificato…”. Il potere conferito viene espresso senza ambiguità: “Che essi operino per la salvezza del vostro popolo, e con la loro santa benedizione, la transustanziazione del pane e del vino in Corpo e Sangue del vostro divin Figlio”. Adesso il vescovo dice: “Ricevete l’offerta del popolo santo per presentarla a Dio”. Fa del nuovo sacerdote più un intermediario che un detentore del sacerdozio ministeriale, un sacrificatore. La concezione è completamente diversa. Il sacerdote, nella santa Chiesa, è sempre stato considerato come qualcuno che aveva un carattere dato dal sacramento dell’Ordine.
Pio XII aveva detto che era proibito, sotto pena di peccato grave, sopprimere la trasmissione degli strumenti. Ora hanno cambiato le parole dette dal vescovo nel momento della porrezione del calice e della patena. Perché aver soppresso quelle parole? Senza dubbio il potere viene già comunicato nel rito essenziale d’imposizione delle mani con il prefazio consacratore, rito definito da Pio XII. Ma questo Papa chiedeva che non si cambiasse niente dei riti accessori dell’ordinazione.
Un altro cambiamento ha avuto luogo nel rito dell’ordinazione sacerdotale: la soppressione dell’imposizione delle mani, alla fine della Messa, che significa il potere di confessare.
La Chiesa, nella sua Tradizione, ha voluto conservare le parole che Nostro Signore ha dette ai suoi apostoli per conferire loro il potere d’assolvere. Ecco quelle magnifiche parole: “Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e da chi li riterrete, saranno ritenuti” (Gv 20, 22-23).
Si capisce benissimo come la Chiesa le abbia conservate preziosamente e faccia dire al vescovo le parole stesse di Nostro Signore. Il vescovo pronuncia quelle parole così importanti sui sacerdoti, alla fine della loro ordinazione, perché abbiano coscienza del potere che hanno di rimettere o ritenere i peccati. Quel potere del sacerdote è un potere di giudizio molto importante. E’ quel potere che costituisce l’essenza del sacramento della penitenza. Al sacramento della penitenza, ci si presenta ad un tribunale. Il sacerdote è un giudice, cioè dà una sentenza favorevole o sfavorevole.
Ora, oggi, nella cerimonia d’ordinazione hanno soppresso l’imposizione delle mani con le parole pronunciate da Nostro Signore stesso per dare agli apostoli il potere di rimettere i peccati.
Ciò non vuol dire che il sacerdote ordinato secondo il nuovo rito non abbia quel potere, dato che l’ordinazione, se le parole sono valide, gli conferisce tutti i poteri sacerdotali.
Ma che la Chiesa conciliare abbia soppresso una cosa simile, è inammissibile.
2. Una desacralizzazione sistematica del sacerdozio
Sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale
Se il sacerdozio non è orientato prima di tutto verso l’altare del Sacrificio, non è più necessario distinguere così nettamente i chierici dai laici. Ecco perché alcuni teologi hanno posto l’accento sul sacerdozio comune, relativizzando così la specificità del sacerdozio ministeriale. Questa tesi, ispirata al protestantesimo, è all’origine di certi slittamenti operati dal concilio Vaticano II.
La Chiesa ha sempre insegnato che esisteva una distinzione essenziale tra il sacerdozio dei preti ed il sacerdozio dei fedeli, essendo quest’ultimo definito sacerdozio per analogia. Se i sacerdoti ricevono il sacramento dell’Ordine, è proprio perché sono distinti dal popolo fedele, perché sono scelti tra i fedeli per ricevere la distinzione speciale dei tre poteri.
La dottrina costante della Chiesa è che il sacerdote è rivestito d’un carattere sacro indelebile: “Tu sei sacerdote per l’eternità” (Sal 109, 4; Eb 5, 6). Ha un bel fare quello che vuole; davanti agli Angeli, davanti a Dio, nell’eternità resterà sacerdote. Getti pure la tonaca alle ortiche, porti un pullover rosso o di qualsiasi altro colore, commetta i maggiori crimini, non cambierà nulla. Il sacramento dell’Ordine l’ha modificato nella sua natura.
Lutero considera la distinzione tra clero e laici come ‘la prima muraglia eretta dai papisti’; tutti i cristiani sono sacerdoti e il pastore, presiedendo la ‘messa evangelica’, non fa che esercitare una funzione.
Vorrebbero farci credere che il sacerdote è un uomo come gli altri e che non deve distinguersi, cosicché a poco a poco, lentamente, l’idea stessa del sacerdozio scompare. Si confonde il sacerdozio dei preti con quello dei fedeli.
Certo, Lumen gentium distingue tra il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale dei preti. Ma poi il testo racchiude lunghe pagine che parlano del sacerdozio in generale, confondendo i due, o facendo del sacerdozio dei preti una funzione fra altre del sacerdozio comune.
Troviamo sempre quest’ambiguità nel concilio, che è disastrosa perché si può dire: Guardate, hanno proprio affermato la verità. Ah sì! Avete proprio affermato la verità, ma dopo, nelle pagine successive, fate come se non aveste affermato quella verità e mescolate tutto. Allora, quelli che vogliono insegnare come i protestanti possono basarsi anche sulle pagine del concilio.
I teologi come Hans Küng negano l’esistenza di un sacerdozio riservato in modo speciale a certi individui. Seguendo l’esempio dei protestanti, la nuova teologia minimizza il sacerdozio del prete ed esalta quello dei laici. Bisogna ben riconoscere che questa fu anche una tendenza del concilio Vaticano II, i cui testi equivoci permettono numerose e false interpretazioni.
Benché questa tesi sia contraria a tutta la tradizione cattolica, è ancora insegnata apertamente dai teologi moderni. La riforma liturgica contribuisce a rafforzare questa tendenza autorizzando una partecipazione esagerata dei laici al ministero riservato fino allora al solo sacerdote in virtù della sua consacrazione.
Le autorizzazioni ad abbandonare l’abito ecclesiastico, ad esercitare una professione civile, a partecipare all’azione sindacale e politica confermano questo slogan: “Il sacerdote è un uomo come gli altri.”
Queste disposizioni pratiche a favore della scomparsa della distinzione tra sacerdote e fedeli rendono inutili ed inefficaci le poche reazioni verbali del Santo Padre e del sinodo. Si deve d’altronde notare che, anche in quelle proteste, l’accento viene posto generalmente sull’evangelizzazione e non sul ministero sacrificale e sacramentale, ad immagine dei protestanti. La difesa del sacerdozio e del suo carattere sacro destinato all’offerta del Sacrificio non è più garantita.
Si è visto un vescovo non sospeso scrivere: “Il sacerdote non è colui che fa delle cose che i semplici fedeli non fanno; non è neppure un ‘altro Cristo’ più di qualsiasi altro battezzato”. Questo vescovo ripeteva solamente le lezioni dell’insegnamento predominante dal concilio e dalla nuova liturgia in poi.
Poiché l’accento è posto sul sacerdozio comune piuttosto che sulla distinzione tra clero e laici, numerosi segni, che contraddistinguevano fin lì questa distinzione, sono stati soppressi: abbandono dell’abito ecclesiastico, soppressione della cerimonia di tonsura, soppressione anche degli ordini minori e del suddiaconato. Queste differenti misure hanno contribuito alla desacralizzazione del sacerdote.
L’abbandono dei segni distintivi
Una (…) forma esteriore contro cui si è levata una gran parte dell’opinione pubblica, è l’uso della talare, non tanto in Chiesa o nelle visite al Vaticano, quanto nella vita di tutti i giorni. Non è una questione essenziale, ma è di grande importanza. Ogni volta che il Papa l’ha ricordata – e Giovanni Paolo II da parte sua l’ha fatto con insistenza –nei ranghi del clero hanno elevato proteste indegne. Leggevo in un quotidiano parigino le dichiarazioni fatte a questo riguardo da un sacerdote d’avanguardia: “E’ folclore…In Francia l’uso di un abito riconoscibile, non ha senso, perché non c’è nessun bisogno di riconoscere un sacerdote per strada. Al contrario, la talare o il clergyman provocano dei blocchi…Il sacerdote è un uomo come tutti.” (…)
In tutte le religioni, i capi religiosi portano dei segni distintivi. L’antropologia, cui si fa molto caso, è lì per testimoniarlo. Presso i musulmani, si vedono utilizzare vestiti differenti, collane ed anelli. I buddisti si vestono con un vestito tinto di zafferano e si rasano la testa in un certo modo. Nelle vie di Parigi e di altre grandi città si possono notare dei giovani aderenti a quella dottrina e il cui abbigliamento non suscita alcuna critica. La talare [o l’abito religioso] garantisce la specificazione del clero, del religioso o della religiosa, come l’uniforme quella del militare o del vigile, tuttavia con una differenza: questi, riprendendo la tenuta civile, ridiventano dei cittadini come gli altri, mentre il sacerdote deve conservare il suo abito distintivo in ogni circostanza della vita sociale. Infatti, il carattere sacro ricevuto nell’ordinazione lo fa vivere nel mondo senza essere del mondo. Lo leggiamo in san Giovanni: “Voi non siete del mondo…vi ho scelti dal mondo” (Gv 15, 19). Il suo abito deve essere distintivo e al tempo stesso scelto in uno spirito di modestia, di discrezione e di povertà.
Una seconda ragione è il dovere del sacerdote di rendere testimonianza a Nostro Signore: “Voi sarete miei testimoni” (At 1, 8), “non si mette la luce sotto il moggio” (Mt 5, 15). La religione non deve chiudersi nelle sacrestie, come hanno decretato da tempo i dirigenti dei paesi dell’Est, Cristo ci ha comandato di esternare la nostra fede, di renderla visibile con una testimonianza che deve essere vista e udita da tutti. La testimonianza della parola, che sicuramente è più essenziale per il sacerdote di quella dell’abito, tuttavia è molto facilitata da quella manifestazione nettissima del sacerdozio che è l’uso della talare.
(…) Nella nuova Chiesa si preconizza il dialogo. Come avviarlo se cominciamo col dissimularci agli occhi dei possibili interlocutori? Nelle dittature comuniste, la prima ordinanza dei capi è sempre stata quella d’interdire la talare; ciò fa parte dei mezzi destinati a soffocare la religione. Perciò bisogna proprio credere che sia vero anche il contrario. Il sacerdote che si presenta come tale nel suo aspetto esterno è una predica vivente. L’assenza di sacerdoti riconoscibili in una grande città segna un grave regresso della predicazione del Vangelo; è la continuazione dell’opera nefasta della Rivoluzione e delle leggi di separazione.
Aggiungiamo che la talare preserva il sacerdote dal male, gli impone un determinato comportamento, gli ricorda ad ogni istante la sua missione sulla terra, lo preserva dalle tentazioni. Un sacerdote in talare non ha crisi d’identità, e i fedeli sanno con chi hanno a che fare; la talare è una garanzia d’autenticità del sacerdozio. Alcuni cattolici mi hanno confidato la difficoltà provata nel confessarsi da un sacerdote in giacchetta avendo l’impressione di confidare ad un uomo qualunque i segreti della loro coscienza. La confessione è un atto giudiziario; perché dunque la giustizia civile sente il bisogno di far portare la toga ai suoi magistrati?
[I sacerdoti] hanno iniziato a gettare la tonaca, dunque a laicizzarsi. Sono diventati laici (…) Hanno immaginato che mettendosi in civile, avrebbero visto i laici molto più amabili verso di loro, che sarebbero stati amici con tutti: si portano gli amici in chiesa, ecc. Non solo non ci hanno portato nessuno, ma hanno praticamente cacciato la metà dei cattolici dalle chiese. E loro stessi, cosa sono diventati ora? Non sono più degli uomini di Chiesa. E’ finita. La gente non li riconosce più come uomini di Chiesa.
Adesso, tutto questo clero che non porta più alcuna insegna di chiericato si è evidentemente profanato da solo. Direi che commette quasi un sacrilegio contro il proprio chiericato. Lo disprezza. E’ inammissibile perché il chiericato è d’istituzione divina, per il bene dei fedeli. Per il fatto stesso di voler essere come gli altri, questo clero distrugge la gerarchia della Chiesa. Nel diritto canonico, è specificato: “Colui che non portasse la talare per un periodo prolungato perderebbe lo stato di chierico.” E’ nella legge. Qualcuno che gettasse la propria talare dicendo: Per me, è finita! e che per un lungo periodo l’abbandonasse deliberatamente, dovrebbe automaticamente essere ridotto allo stato laicale perché disprezza il suo stato clericale di fronte ai fedeli.
La scomparsa di ogni testimonianza per mezzo del vestito appare chiaramente come una mancanza di fede nel sacerdozio, una disistima del senso religioso presso il prossimo, e in più una vigliaccheria, una mancanza di coraggio nelle convinzioni.
Anche per delle persone che non praticano più, che non hanno fede, il sacerdote è l’uomo di Dio. Perciò sono completamente delusi e turbati da questa desacralizzazione del sacerdote. Non capiscono più. Questo sacerdote, con solo una piccola croce appena visibile, oppure che non ha proprio niente, o una cravatta, che si presenta: Io sono padre Tal dei tali. E’ questo, l’uomo di Dio?
L’uomo di Dio ha bisogno di essere rivelato da un abito esteriore che dimostri chi è. Una persona può aver bisogno di lui in qualsiasi momento se desidera confessarsi o se si ammala. Bisogna che sappia a chi rivolgersi. Se non ci sono segni distintivi, come potrà sapere con chi ha a che fare?
Questo laico in civile, in cravatta, che viene a dirmi di essere sacerdote, lo è veramente? Ho a che fare con un sacerdote? La gente se lo chiede. Ci sono dei malati che mandano via dei sacerdoti in civile. E’ del tutto normale.
Il sacerdote quindi non ha il diritto di nascondersi, di sparire nella folla e mettersi al livello dei fedeli. E’ segnato da Dio per essere al servizio dei fedeli, per portare loro la grazia.
Noi desideriamo conservare chiaramente quello che distingue il sacerdote, che lo differenzia dal mondo, perché il sacerdote è scelto, è chiamato da Nostro Signore Gesù Cristo a partecipare al suo Sacerdozio ed a consacrarsi definitivamente a Lui.
Ora, il mondo oggi ha bisogno di vedere, in questi tempi d’ateismo, in cui Dio viene dimenticato, delle persone che dichiarino la propria fede e specialmente quelle che ne hanno ricevuto l’incarico.
Il sacerdote è incaricato di dichiarare ovunque la propria fede in Nostro Signore Gesù Cristo con le sue parole, con i suoi comportamenti, con i suoi esempi. Allora è bene che anche un segno esteriore manifesti la sua fede. La Chiesa lo ha sempre pensato.
3. Un nuovo tipo d’apostolato
Se la priorità del sacerdote non è più offrire il Sacrificio a Dio, quale sarà il suo ideale? Non gli resterà che l’evangelizzazione. Ma essendo quest’ultima priva del suo fine, egli rischia di diventare l’uomo del sociale, cioè della politica.
Un’evangelizzazione sviata dal suo fine
Bisogna osservare che il decreto [Presbyterorum ordinis] insiste più di quanto non si facesse prima sulla missione del sacerdote, che è l’inviato a seguito dell’Apostolo per eccellenza. Così il ministero della parola, della predicazione, è sottolineato maggiormente. Tuttavia questo ministero non è un fine in sé, esso prepara, porta ad un altro ministero, più essenziale, fine particolare del sacerdozio [il Santo Sacrificio della Messa].
Ora, quando si leggono i discorsi pronunciati dai vescovi per le ordinazioni sacerdotali, ci si accorge che non si tratta assolutamente più del Sacrificio della Messa. Il sacerdote è una persona che riunisce. E’ un legame che suscita la solidarietà, è una comunione. Sono parole che non hanno niente a che vedere con il Santo Sacrificio della Messa.
Ecco il fascicolo di un’ordinazione sacerdotale che si è svolta a Tolosa qualche anno fa. Un animatore inizia la celebrazione presentando l’ordinando, chiamandolo col nome: C. e dicendo: “Ha deciso di vivere più a fondo (il dono totale che ha fatto a Dio e agli uomini) consacrandosi interamente al servizio della Chiesa nella classe operaia”. C. ha effettuato il suo cammino, cioè il suo seminario, in gruppo. E’ questo gruppo che lo propone al vescovo: “Noi vi chiediamo di riconoscere, di autenticare il suo passo e di ordinarlo sacerdote”. Il vescovo gli fa allora diverse domande che fungono da definizione del sacerdozio: Vuoi tu essere ordinato sacerdote “per essere, con i credenti, segno e testimone di ciò che cercano gli uomini, nei loro sforzi di giustizia, di fratellanza e di pace”, “per servire il popolo di Dio”, “per riconoscere nella vita degli uomini l’azione di Dio nella molteplicità di itinerari, di culture e di scelte ”, “per celebrare l’azione di Cristo e garantire questo servizio”, vuoi tu “condividere con me e con l’insieme dei vescovi la responsabilità che ci è affidata per il servizio del Vangelo”.
La materia del sacramento è salva: è l’imposizione delle mani, che ha luogo dopo, ed anche la forma: sono le parole dell’ordinazione. Ma si è costretti a notare che l’intenzione non è molto chiara. Il sacerdote è forse ordinato ad uso esclusivo di una classe sociale e innanzitutto per stabilire la giustizia, la fratellanza e la pace su un piano che sembra oltretutto limitato all’ordine naturale? La celebrazione eucaristica che segue, “prima Messa”, insomma, del nuovo sacerdote, va in quella direzione. L’offertorio è stato composto per la circostanza: “Noi Ti accogliamo, Signore, ricevendo da Te questo pane e questo vino che ci offri, noi vogliamo rappresentare con essi tutto il nostro lavoro, i nostri sforzi per costruire un mondo più giusto e più umano, tutto ciò che cerchiamo di realizzare affinché siano garantite delle migliori condizioni di vita…” La preghiera sulle offerte è ancora più equivoca: “Guarda, Signore, noi Ti offriamo questo pane e questo vino perché diventino per noi una delle forme della Tua presenza”. No, le persone che celebrano in questo modo non hanno la fede nella presenza reale!
Una cosa è sicura: la prima vittima di questa ordinazione scandalosa è il giovane che s’impegna per sempre senza sapere esattamente per che cosa, o credendo di saperlo. Come potrebbe non arrivare a porsi, in un lasso di tempo più o meno breve, alcuni interrogativi, visto che l’ideale propostogli non può soddisfarlo a lungo? L’ambiguità della sua missione gli diverrà palese: è ciò che si chiama “la crisi d’identità del sacerdote”. Il sacerdote è essenzialmente uomo di fede; se non sa più quello che veramente è, perde la fede in se stesso e in ciò che costituisce il suo sacerdozio.
La definizione del sacerdozio, data da san Paolo e dal concilio di Trento, ne esce radicalmente modificata. Il sacerdote non è più colui che sale all’altare e offre a Dio un Sacrificio di lode e per la remissione dei peccati. L’ordine delle finalità è stato invertito: il sacerdozio ha un fine primario che quello di offrire il Sacrificio, e un fine secondario che è l’evangelizzazione. Il caso di C., che non è certo l’unico giacché ne abbiamo molti, mostra sino a qual punto l’evangelizzazione prenda il sopravvento sul Sacrificio e sui sacramenti. E’ fine a se stessa. Tale grave errore ha conseguenze tragiche; l’evangelizzazione, perso il suo scopo, sarà disorientata, cercherà dei motivi che piacciono al mondo, quali la falsa giustizia sociale, la falsa libertà che si bardano di nuovi nomi: sviluppo, progresso, costruzione del mondo, miglioramento delle condizioni di vita, pacifismo. Siamo ormai risucchiati nel linguaggio che conduce a tutte le rivoluzioni.
La nuova missione sociale del sacerdote
Un giorno spiegavo ad un cardinale cosa facevo nei miei seminari, ove la spiritualità è orientata soprattutto verso l’approfondimento della teologia del Sacrificio della Messa e la preghiera liturgica. Mi ha detto: “Ma Monsignore, è esattamente il contrario di ciò che da noi desiderano oggi i giovani sacerdoti. Oggi il sacerdote si definisce solo in funzione dell’evangelizzazione”. Ed io aggiunsi: “Quale evangelizzazione? Se essa non ha un rapporto fondamentale ed essenziale con il Santo Sacrificio, come volete figurarvela? Evangelizzazione politica, sociale, umanitaria?”. L’apostolo diviene un militante sindacalista e marxista, quando non annuncia più Gesù Cristo. E’ normale. Lo si comprende benissimo. Egli ha bisogno di una nuova mistica e la trova in questo modo, ma perdendo quella dell’altare.
Sapete, è veramente doloroso leggere o ascoltare dei discorsi in cui si parla di guerre, della fame nel mondo, di tutte le ingiustizie di questo mondo che si concludono nel modo seguente: Ci vuole una migliore distribuzione dei beni, più giustizia, più pace nel mondo, un’intesa tra gli uomini, senza la minima allusione a Nostro Signore Gesù Cristo. Non si fa nessuna allusione all’unica soluzione che possa essere trovata per risolvere il problema.
I sacramenti, segni comunitari
Non essendo più il Sacrificio dell’altare la prima ragione del sacerdozio, sono tutti i sacramenti ad essere colpiti e per loro il sacerdote farà ricorso ai laici, essendo egli stesso occupato in compiti sindacali o politici. Il battesimo sarà amministrato dai laici o da diaconi sposati. Saranno sempre loro a distribuire l’Eucaristia e la porteranno ai malati. Dato che il sacramento della penitenza è veramente troppo impegnativo, si cercherà con tutti i mezzi di screditarlo e di sostituirlo con delle cerimonie penitenziali comuni. In tutti i paesi, si moltiplicano gli sforzi per forzare la mano alle autorità. Così si procede poco a poco alla distruzione dei sacramenti, dopo aver proceduto alla distruzione della Messa.
Fate attenzione anche alla tendenza moderna di considerare tutti i sacramenti come un segno comunitario. Una specie di collettivismo contrassegna i nuovi sacramenti. Eppure Nostro Signore ha istituito i sacramenti per santificare le persone, gli individui, e non per essere solamente segni comunitari. Oggi ci sono battesimi collettivi, col pretesto che il battesimo è solo un inserimento nella comunità. Non è questo il senso profondo del sacramento del battesimo. “Io credo al battesimo, in un battesimo per la remissione dei peccati” (Credo), per la remissione del peccato originale in particolare, e per dare la vita di Dio, la vita eterna.
E’ la stessa cosa per le assoluzioni collettive e le estreme unzioni collettive. Tutto ciò cambia il senso che Nostro Signore Gesù Cristo ha voluto dare ai sacramenti. Noi ci salviamo individualmente e non collettivamente. Senza dubbio la società ci aiuta a salvarci, ma, quando compariremo davanti al buon Dio nell’ora della morte, non è la collettività, ma sono le nostre anime ad essere giudicate. Dunque, stiamo attenti a questa specie di nuova prospettiva dei sacramenti, che rischia così di rendere invalidi i sacramenti.
Il sacramento della penitenza consiste essenzialmente in un giudizio. Ora, per giudicare, bisogna conoscere la causa. Come volete giudicare se non conoscete la causa? Per giudicare bisogna ascoltare la persona che è in causa. Nostro Signore dice: “I peccati saranno rimessi a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete” (Gv 20, 23). Dunque ci sono due possibilità, ritenere o rimettere. E, per questo, c’è da dare un giudizio su una persona e non su una massa, non su una folla. Ora, oggi, c’è tendenza a voler sopprimere la confessione personale per sostituirla con un’assoluzione collettiva.
Si dirà che dopo bisogna avvicinare un sacerdote, se si può, nel corso dell’anno, se si è coscienti di aver commesso dei peccati mortali. Alcuni si diranno: Oh! Non posso andarci adesso, quindi ci andrò dopo. E poi dopo: Ora sono sei mesi che mi comunico, ormai non ha più importanza. Provate a dire: quelli che hanno dei peccati mortali si presentino al confessionale. La gente si dirà: se si avvicina al confessionale, è perché ha una colpa grave sulla coscienza, poiché all’infuori dei peccati mortali, l’assoluzione collettiva è sufficiente. E’ vero che si può ricevere l’assoluzione del peccato veniale con una buona comunione, con un atto di carità perfetta. Quindi può essere ricevuta al di fuori del sacramento, ma la confessione dà delle grazie particolari.
Queste assoluzioni collettive causeranno fatalmente la soppressione della pratica della confessione auricolare. Questa è già diminuita enormemente. Eppure i santi sacerdoti, come il curato d’Ars, hanno passato la vita nel confessionale. Allora, hanno forse perso tempo? Non sarebbe stato più facile per loro dare l’assoluzione generale?
Tutti i sacramenti sono stati in un certo modo snaturati, sono divenuti come un’iniziazione ad una collettività religiosa. Non sono questo, i sacramenti. I sacramenti ci danno la grazia, fanno scomparire in noi i peccati e ci danno la vita divina, la vita soprannaturale. Noi non siamo solo membri di una collettività religiosa puramente naturale, puramente umana.