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Possedere un corpo immortale è un bene per l'uomo?

La paura della morte, che oggi impegna molti scienziati nel tentativo vano di ritardare l’invecchiamento, rivela lo stato d’animo di chi pensa che questo evento sia la fine di tutto, o peggio, l’inizio di un’eterna infelicità. Solo la Fede risponde all’innato desiderio d’immortalità dell’uomo. La paura della morte, che oggi impegna molti scienziati nel tentativo vano di ritardare l’invecchiamento, rivela lo stato d’animo di chi pensa che questo evento sia la fine di tutto, o peggio, l’inizio di un’eterna infelicità. Solo la Fede risponde all’innato desiderio d’immortalità dell’uomo. La paura della morte, che oggi impegna molti scienziati nel tentativo vano di ritardare l’invecchiamento, rivela lo stato d’animo di chi pensa che questo evento sia la fine di tutto, o peggio, l’inizio di un’eterna infelicità. Solo la Fede risponde all’innato desiderio d’immortalità dell’uomo.

Uno dei tabù più incrollabili in tutta la storia umana è certamente la morte.  
L’uomo non sopporta di essere mortale: riconosce in sé i semi dell’eternità, concepisce l’idea dell’infinito nel tempo e nello spazio, ma deve scontrarsi con una dura realtà: la morte del corpo esiste ed è inevitabile. Allora ecco fiorire nelle culture e anche nelle religioni più primitive il desiderio e il mito dell’immortalità: dalla mitologia greca che ha popolato l’Olimpo di “dei” capricciosi, volubili e dotati di sentimenti molto triviali come la gelosia e l’invidia, alle antropologie esotiche dei Paesi orientali, sicuramente più serie, nelle quali la vicenda umana si stempera e si confonde con quella ultima della natura e del Cosmo. È inscritto nella nostra natura corruttibile il sogno di vivere per sempre, felici e in buona salute, in una sorta di Eden o di “nirvana” immutabile ed eterno. Anche ai nostri giorni la presenza ingombrante della morte è percepita con senso di disagio, di frustrazione e di contraddizione ma la reazione dell’umanità è strana. Culturalmente molto diversa rispetto al passato. Da una parte si cerca di banalizzarla o esorcizzarla con mille spettacoli televisivi, film, fiction, romanzi gialli e perfino giochi per computer, dall’altra parte, la morte personale, l’evento infausto che ci colpisce spesso impreparati, è vissuto nel privato, nel silenzio ovattato delle cliniche “specializzate” o dei reparti di rianimazione. Una morte-solitudine disumana, crudele, senza alcun conforto religioso. In un’epoca di incredulità, di ateismo e di paganesimo dilagante non poteva mancare il patetico ricorso alla panacèa della scienza. O per meglio dire dello scientismo. Incoraggiati dai progressi ottenuti nell’allungamento della vita, gli scienziati si sono chiesti: si può vivere per sempre? Possiamo ingannare la morte biologica delle cellule, fino a rimandare indefinitamente l’appuntamento meno desiderato del mondo? Le risposte che ci vengono dalle università, dagli studiosi e dal mondo della ricerca, come al solito, sono sorprendenti e ci devono far molto riflettere. Cominciamo col dire che la durata della vita media di un essere umano è passata da 65 anni a 85/87 anni nel giro di un secolo. Molto è dipeso dall’avvento degli antibiotici, dal miglioramento delle condizioni generali di vita, dall’igiene, dalla maggior sicurezza sul posto di lavoro, ecc. Stiamo parlando del mondo occidentale “evoluto” e non delle sacche di povertà del Terzo mondo dove le cose continuano ad andare come prima (o peggio). 

In particolare la mortalità dei bambini e dei neonati è calata drasticamente: in passato un quarto dei piccoli moriva prima dei 5 anni per infezioni e molte donne morivano per le complicanze di parti effettuati in ambiente casalingo. Bastava un taglio ad una mano per incorrere in una setticemia, le epidemie di colera, di peste, di difterite, di tifo, di influenza ecc. decimavano l’umanità. Oggi le cose sono molto cambiate e praticamente si muore di vecchiaia e di malattie connesse alla vecchiaia, tumori, Alzheimer, malattie cardio-vascolari.

C’è perfino chi è arrivato a 122 anni, ma – e questo molti non lo sanno – la morte e l’invecchiamento sono molto diversi tra le specie e quella umana non è affatto la più longeva. Qualche curiosità (vedi Le Scienze, n. 507, novembre 2010, p. 54): una farfallina di nome “Effimera” vive soltanto un giorno. Una libellula 4 mesi, un cane può vivere anche 29 anni, un gatto 36. Il cavallo, uno degli “amici” dell’uomo, vive al più 62 anni, un elefante 86, la tartaruga delle Galapagos 150 anni. Ma ci sono dei record inaspettati: l’astice (quella specie di aragosta con le “pinze”) se non finisce in pentola campa ben 170 anni!!! Una carpa (pesce) 200 anni! La balena della Groenlandia 211 e – notizia delle notizie – la medusa Turritopsis nutricula è immortale. Intendiamoci bene, immortale in questo caso non significa che non muore mai, perché di solito finisce tra le mascelle di uno squalo, nelle reti dei pescatori, o si ammala e muore. Però ha un invecchiamento talmente rallentato che non si è mai visto un esemplare morire per senescenza. In ciò condivide il primato con un minuscolo verme tentacolato di acqua dolce, l’Idra. Anch’essa è “immortale”. Si tratta di animali speciali: se li tagli in due ogni parte diventa un nuovo individuo perché le cellule germinali sono diffuse in tutto il corpo e non ci sono “organi di riproduzione”. Non se ne può prevedere la morte se non soccombe per ferite o predazione. 

In effetti gli scienziati non sanno definire esattamente cos’è l’invecchiamento. Si sa che durante la replicazione delle cellule del nostro organismo “qualcosa” va storto e c’è un accumulo graduale di danni molecolari nel nucleo e nelle membrane che la cellula non riesce a riparare. Addirittura le cellule sono state dotate dal buon Dio di un meccanismo per cui, se i danni accumulati sono eccessivi ed essa rischia di “impazzire” con una degenerazione cancerosa, si innesca un meccanismo di Apoptosi o morte cellulare programmata. Questo è il motivo per cui non abbiamo la pelle rosea e fresca di un neonato (con buona pace dei produttori di “creme ringiovanenti”), oppure l’agilità di quando eravamo ragazzi. Eppure è sotto gli occhi di tutti il miracolo della Vita: da due cellule riproduttive “anziane” di un uomo e di una donna si genera il corpo giovanissimo del bambino: l’orologio biologico torna per così dire indietro, si resetta, e parte una nuova vita. Contemplando un simile mistero Pico della Mirandola, umanista e filosofo del 1400, esclamava nella sua orazione De hominis dignitate che l’uomo non è «né mortale né immortale». 

Gli studiosi hanno preso sul serio la ricerca sui geni – cioè su quelle porzioni di DNA della cellula – che sono responsabili dei processi di individuazione e “riparazione” dei danni cellulari e, in definitiva, dell’invecchiamento nella speranza di poterlo rallentare, ma si sono trovati dinanzi ad una specie di muro: in genere i geni che allungano la vita alterano il metabolismo cioè il modo in cui l’organismo “usa” l’energia tratta dall’alimentazione per funzionare e in un processo a cascata si producono malattie fatali che conducono alla morte. La chiave dell’immortalità sembra attualmente fuori della portata della scienza. Vengono in mente le parole solenni scritte nel Libro della Genesi: «Il Signore Dio disse allora: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!”. Il Signore [...] scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita» (3,22). 

A ben guardare lo sforzo ossessivo di eludere la fine biologica del corpo tradisce lo stato d’animo di chi pensa che la morte sia la fine di tutto o, peggio ancora, il sentore drammatico di una eterna perdizione. È la cattiva coscienza dell’uomo contemporaneo che gli rende insopportabile persino il pensiero della morte e la trasforma in tabù. Al contrario per un credente che ambisce e desidera sommamente la Visione beatifica di Dio, la vera condanna sarebbe proprio lo scenario di un esilio interminabile qui sulla terra, a combattere contro difficoltà, sofferenze, prove e tentazioni senza numero. È un bene per l’uomo lasciare le sue spoglie mortali e gettarsi fiducioso tra le braccia del Signore confidando nella sua eterna Misericordia e in un destino di risurrezione aperto da Colui che ha vinto la morte una volta per tutte. Di fronte al mistero più fitto della nostra esistenza la parola giusta di consolazione e di Salvezza ci viene dalla Fede e non dalla scienza.

Antonio Farina 

 

(Fonte: dalla rivista IL SETTIMANALE DI PADRE PIO)