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Il quotidiano "Avvenire"

Il quotidiano ufficiale della Cei, e pertanto dei cattolici italiani, sembra che faccia ormai da anni delle scelte precise a favore del “cattolicesimo democratico” e dell’ideologia religiosa che questa fazione politico-religiosa adotta per presentare le proprie opzioni come l’unica possibile interpretazione del Vangelo. Si tratta, a voler essere onesti, di tesi che non raramente superano i limiti dell’opinabile, ossia  appaiono sostanzialmente eretiche. Ma, pur a volerle benignamente considerare alla stregua di legittime opinioni (formalmente eretiche non possono definirsi prima che l’autorità dottrina della Chiesa le condanni come tali), tali tesi non hanno alcun titolo per presentarsi come l’unica verità, con l’esclusione di ogni altra tesi teologica.

E invece è proprio quello che accade: chi prospetta opzioni diverse – sempre nel campo dell’opinabile, dove dovrebbe essere rispettato il pluralismo – non è tollerato da questa fazione politico-religiosa oggi al potere, e così chiunque dissenta viene sistematicamente censurato (ignorato, ridotto al silenzio), oppure le sue critiche vengono pubblicamente stigmatizzate come attentati all’unità della Chiesa, come lesive di quella che si è autoproclamata ortodossia ufficiale. Le intenzioni di coloro che osano dissentire non possono che essere subdole e turpi, e per questo il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, dopo che io avevo criticato in un blog la maniera con cui Enzo Bianchi presentava nel quotidiano cattolico la figura di Cristo, mi ha ingiunto di tacere, aggiungendo che io avrei dovuto vergognarmi. Invano avevo inviato alla redazione di Avvenire una copia del mio ultimo libro, Vera e falsa teologia, dove si trovano esaurientemente spiegate le ragioni teologiche del mio dissenso (che non era certamente dissenso dalla dottrina cattolica, ivi compresi naturalmente gli insegnamenti del Vaticano II, ma dissenso dall’ideologia umanistica di Bianchi), perché Tarquino proibì che se ne parlasse e arrivò a cestinare una sobria recensione che ne aveva fatto un antico e apprezzato collaboratore del quotidiano, il prof. Francesco Pistoia. La stessa sorte subirono le lettere inviate al giornale in difesa della mia posizione.

 

Nel contempo, tante voci si levarono in difesa di Bianchi: il mensile dei paolini, Jesus, dove pure Bianchi era di casa, si affrettò a pubblicare un’aspra nota di censura miei confronti, firmata proprio dal direttore del periodico; poi sul quotidiano Il foglio intervennero a l’ex abate di San Paolo, Giovanni Franzoni, e il vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, i quali sostenevano che la Chiesa conciliare, “animata dal basso”, non dovesse restare irretita dal formalismo dei dogmi ma dovesse vivere nell’attesa del Regno che deve attuarsi nella storia mediante la liberazione degli oppressi eccetera. Tutti hanno ripetuto, per darmi addosso, i vecchi luoghi comuni dell’antidogmatismo, dell’antigiuridicismo, del conciliarismo democratico, della teologia politica, insaporendo le argomentazioni ideologiche con le solite pericopi della Scrittura tolte dal loro contesto letterale e interpretate arbitrariamente, secondo la migliore tradizione del biblicismo di esplicita derivazione luterana.

Se è questa l’ideologia dominante, che ha saldamento in mano le leve del potere mediatico, è del tutto comprensibile che le mie preoccupazioni dogmatiche non abbiano ricevuto alcun apprezzamento, anzi nemmeno ascolto presso quegli ambienti. Io avevo manifestato il mio disappunto di cattolico e di sacerdote nel vedere come il giornale dei vescovi, nella prima domenica di Quaresima, faceva commentare il Vangelo del giorno, quello delle tentazioni di Cristo nel deserto a opera di Satana. Nel commento, pubblicato con grande rilievo (due intere pagine a colori), l’autore, Enzo Bianchi, presentava Gesù come una “creatura”, un semplice uomo che noi dobbiamo imitare nella sua filantropia. 

Scriveva testualmente: «Gesù, essendo creatura»… Insomma, Cristo ridotto a un maestro di spiritualità, una specie di replica del Budda! Con una nota sulla Bussola quotidiana ricordavo accoratamente che i testi della catechesi e della predicazione al popolo non servono all’evangelizzazione se finiscono per mettere in ombra il dogma cristologico. La fede cristiana è che Gesù è Dio fatto uomo. Egli è il Creatore, non una creatura. La dottrina della Chiesa precisa che l’unione ipostatica va intesa nel senso che la Persona del Verbo eterno ha assunto la natura umana senza per questo smettere di essere Dio. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, non solo irrise questa mia preoccupazione per il dogma, ma scrisse che era assurdo e vergognoso parlare di eresia a proposito del testo di Enzo Bianchi; egli lo aveva pubblicato, come tanti altri in precedenza, perché gli era sembrata una “meditazione profonda e sentita”. Sicché Bianchi continua a scrivere queste cose su Avvenire, la domenica nelle pagine centrali, con tanto di foto a colori.

Nella precedente occasione si trattava della Quaresima, che è un “tempo forte” dell’anno liturgico. Ora siamo in un altro “tempo forte”, l’Avvento, e di nuovo Bianchi ha modo di propinare ai fedeli cattolici il suo anti-catechismo. Il 16 dicembre si mette a pontificare sul giudizio di Dio, e anche in questo contesto torna a riferirsi  Cristo, nostro Signore, in un modo che mi urta, come certamente urta chiunque viva la fede cattolica e abbia pertanto un profondo sentimento di adorazione nei confronti del Verbo Incarnato. A un certo punto Bianchi, riferendosi al giudizio universale, scrive: «Gesù confessa la sua ignoranza relativa all’ora precisa del giorno del giudizio: “Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre” [Mc 13,32]. Se Gesù non conosce l’ora, annuncia però il criterio del giudizio: il concreto amore fraterno». 

Ora, parlare di Gesù come di uno che «confessa la sua ignoranza» suona a bestemmia, almeno per chi adora Gesù come il Verbo eterno, consustanziale al Padre, che tutto sa e tutto può. Solo uno come Bianchi, chi insiste a presentare al popolo Gesù come un semplice uomo (un uomo esemplare, di grande spiritualità, tanto da poter essere chiamato “Figlio di Dio”, ma pur sempre un uomo) può parlare in questi termini. Evidentemente, Bianchi confida, da una parte, dall’appoggio incondizionato di cui gode in certi ambienti ecclesiastici, e dall’altra sull’ignoranza del pubblico cui si rivolge. La gran massa dei fedeli cattolici, infatti, soffre di una specie di analfabetismo di ritorno in materia di dottrina, e questa ignoranza (l’ignoranza, colpevole o meno, di noi uomini, non certamente l’ignoranza presunta di Cristo) è il vero dramma religioso che ci interpella tutti. Il relativismo dottrinale ha pervaso a tal punto la coscienza di tanti fedeli che non hanno avuto mai una adeguata catechesi circa il dogma cristologico da renderli insensibili alle più orrende bestemmie. Non mi meraviglia constatare che molti non avvertono alcun disagio nel leggere espressioni blasfeme nei riguardi di Cristo come quelle che rilevano sette mesi fa e rilevo anche oggi negli scritti di Bianchi.

Ma chi ha sensibilità pastorale deve ragionare così: proprio perché c’è una carenza sempre più estesa di formazione catechistica nel popolo, è responsabilità degli operatori della pastorale far sì che gli strumenti della catechesi sappiano fornire argomenti di riflessione che mettano in luce, e non in ombra, il dogma centrale della nostra fede. Se non si predica che Gesù è Dio, come si può sperare che ci sia culto eucaristico? Come si può sperare che i “lontani” ritornino alle pratiche religiose, che sono tutte incentrate sull’adorazione di Cristo, vero Dio e vero Uomo, veramente presente nell’Eucaristia? 

Come si può attuare il programma pastorale del Vaticano II, che chiede di fare dell’Eucaristia «il centro e la radice di tutta la vita cristiana»? 
Prima dicevo che il metodo perverso del biblicismo consiste nell’utilizzare retoricamente parti della Scrittura, selezionandole e  manipolandole per scopi di natura ideologica, cioè per sostenere tesi preconfezionate. Da secoli gli esegeti cattolici hanno chiarito il senso di quella pericope evangelica citata da Bianchi. La Scrittura non vuole insegnare che Cristo avesse “ignoranza” di alcunché, ma solo che la sua rivelazione dei misteri del Padre era limitata ad alcuni contenuti; la missione di Cristo, rivelatore del Padre, ha dei limiti precisi. Del resto, basta usare il metodo esegetico corretto, che richiede sempre il ricorso all’analogia della fede, per accorgersi che la Scrittura insegna proprio l’onniscienza di Gesù, perché c’è una sola Persona ed è la Persona del Verbo. E Gesù dice di sé: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo». 

Questo Figlio, secondo il Vangelo di Giovanni (Gv 1, 1-8), è il Verbo, che «è presso Dio ed è Dio». Gesù, Dio fatto uomo, ha una conoscenza umana limitata, unitamente alla visione immediata di ogni cosa che compete all’onniscienza divina. Tutti ricordano l’espressione di Pietro, dopo la Resurrezione, quando si rivolge a Gesù e gli dice «Signore, tu sai tutto!». Prima ancora, Tommaso apostolo rivolge al Risorto questa esplicita professione di fede nella sua divinità: «Tu sei il mio Signore, tu sei il mio Dio!». La Tradizione non ha mai tralasciato di porre l’accento sulla divinità di Cristo. Si pensi, ad esempio, a come parla dei Novissimi (il tema di cui si è voluto occupare Bianchi nello scritto su Avvenire del 6 dicembre) san  Giovanni Crisostomo: «Quando Tu, vita immortale, discendesti incontro alla morte, allora annientasti l’Inferno con il fulgore della tua divinità; poi però, quando resuscitasti i morti dai luoghi sotterranei, tutte le potenze che sono sopra il cielo esclamarono: “Gloria a te, o Cristo, Dio nostro, che dai la vita!”».
Non è comunque solo il dogma cristologico a essere ignorato da Bianchi con il ricorso ad arbitrarie interpretazioni della Scrittura. Anche il tema della giustizia divina e del castigo delle colpe è maltrattato nello scritto del 16 dicembre su Avvenire. 

Con sicumera davvero infondata Bianchi afferma perentoriamente che «Dio non ci castiga mentre siamo in vita»; poi, per giustificare questa sua tesi teologicamente insostenibile aggiunge: «In questo caso [se cioè Dio ci castigasse in vita, ndr] saremmo infatti “costretti” ad agire secondo il suo volere, senza la libertà che appartiene alla nostra dignità umana». Si tratta certamente di considerazioni antropologiche prive di qualsiasi coerenza logica, perché il concetto di “castigo” presuppone la colpa e quindi l’esercizio della libertà, con la conseguente responsabilità,  sia prima che dopo il castigo stesso (per questo esiste la figura morale della recidività, ossia della colpa liberamente ripetuta anche dopo un’eventuale ammonizione e un’eventuale il castigo, persino dopo un’eventuale pentimento). 

Ma a ma preme soprattutto rilevare come il presunto biblista (Bianchi) ignora gli innumerevoli fatti raccontati dalla Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, dai quali si evince che la giustizia divina ritiene a volte che sia un bene per i peccatori che sia loro inflitto un salutare castigo già nella vita presente. Basti accennare, per quanto riguarda l’Antico Testamento,  al diluvio universale, alla distruzione di Sodoma e Gomorra, alle piaghe d’Egitto, alle vicissitudini degli Ebrei nei quarant’anni dell’Esodo (ed è significativo che Dio punisca molte volte il suo stesso popolo per le sue ripetute infedeltà, e alla fine anche Mosè, l’«amico di Dio», è castigato e impedito di entrare nella Terra promessa). 

Poi, per quanto riguarda il Nuovo Testamento, basti ricordare la pedicazione di Giovanni il Batezzatore, il quale si rivolge a quei giudei che si vantano delle loro origini e li ammonisce, dicendo: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente?» (Lc 3,7); l’ammonimento, con la minaccia del castigo divino, era inteso a provocare la decisione di fare finalmente delle «opere degne della conversione» (Lc 3,8), ossia ad operare liberamente e meritoriamente per salvare la propria anima dal giudizio finale, perché «ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco» (Lc 3,9). Poi, per passare da un esempio di pene temporali solamente minacciate a pene temporali effettivamente comminate, basti pensare al drammatico episodio, narrato negli Atti degli Apostoli, dei coniugi cristiani Anania e Saffira, puniti da Dio con la morte per aver mentito agli Apostoli riguardo alla messa in comune dei loro beni.

Anche nelle lettere di san Paolo e nella Lettera agli Ebrei si parla chiaramente di taluni mali temporali che devono essere interpretati come castighi che Dio infligge per spingere i peccatori alla penitenza.  Le considerazioni astratte che si fanno per negare questa verità di fede  sono basate su fantasiose teorie psudo-teologiche, che io ho già avuto occasione di smontare a suo tempo quando ci fu, da parte degli intellettuali progressisti, una levata di scuti contro il prof. Roberto De Mattei il quale aveva parlato di alcune calamità naturali ipotizzando (legittimamente) che potessero essere interpretate come un castigo divino per ammonire un’umanità lontana da Dio e sempre più immersa nel peccato.  

 

Mons. Antonio Livi (bosecuriose.it)