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S.Agostino - De vera religione/5

Come vanno interpretate le Sacre Scritture.

50.98. Se non possiamo ancora godere dell'eternità, attribuiamolo almeno alle nostre immaginazioni ed espelliamo dalla scena della nostra mente giochi così futili ed ingannatori. Per salire serviamoci dei mezzi che la divina Provvidenza si è compiaciuta di creare per noi. Quando, infatti, troppo presi da divertenti immagini, ci perdevamo dietro ai nostri pensieri e volgevamo tutta la vita a certi vani sogni, Dio, nella sua indicibile misericordia, non disdegnò di giocare, in certo modo, con noi bambini per mezzo di parabole e similitudini, facendo ricorso, attraverso suoni e scritti (dal momento che la creatura razionale è sottomessa alle sue leggi), al fuoco, al fumo, alla nube, alla colonna come a parole visibili, e di curare i nostri occhi interiori con questa sorta di fango.

50.99. Distinguiamo, dunque, la fede che dobbiamo prestare alla storia da quella che dobbiamo prestare all'intelligenza e che cosa dobbiamo affidare alla memoria, senza sapere che è vero, ma tuttavia credendolo tale. Distinguiamo, inoltre, dove si trovi la verità che non viene e non passa, ma rimane sempre nello stesso modo. E ancora: quale sia il modo secondo cui dobbiamo interpretare l'allegoria che nello Spirito Santo crediamo proferita mediante la sapienza: se sia sufficiente estenderla dalle cose visibili più antiche a quelle visibili più recenti o fino alle affezioni e alla natura dell'anima, oppure fino all'immutabile eternità; se alcune di queste allegorie indichino atti visibili, altre moti dell'animo, altre ancora la legge dell'eternità; e se ve ne siano alcune nelle quali bisogna rintracciare tutte queste cose. Da ricercare è anche in cosa consista la fede stabile, sia storica e temporale che spirituale ed eterna, verso la quale si deve orientare ogni interpretazione secondo l'autorità; e in quale misura la fede nelle cose temporali giovi alla comprensione e al raggiungimento delle realtà eterne, che sono il fine di tutte le buone azioni. E quale differenza vi sia tra l'allegoria della storia e quella del fatto, e tra l'allegoria del discorso e quella del rito sacro; e come lo stesso linguaggio delle Sacre Scritture debba essere inteso secondo le caratteristiche di ciascuna lingua, poiché ogni lingua ha certi suoi propri generi di espressione che, tradotti in un'altra lingua, sembrano privi di senso. A cosa giovi un linguaggio così umile per cui nei libri sacri si trovano non solo espressioni che si riferiscono all'ira di Dio, alla sua tristezza, al suo risveglio dal sonno, alla sua memoria, alla sua dimenticanza e a molte altre cose che possono capitare agli uomini buoni, ma anche termini come pentimento, gelosia, crapula e altri simili. E se gli occhi di Dio, le mani, i piedi e altre membra di tal genere, che vengono menzionate nelle Scritture, debbano essere intese secondo l'aspetto visibile del corpo umano, come avviene per l'elmo, lo scudo, la spada, la cintura e simili, oppure in riferimento alle facoltà intelligibili e spirituali. E, soprattutto, occorre chiedersi quale giovamento derivi al genere umano dal fatto che la Provvidenza divina abbia parlato con noi attraverso una creatura razionale, generata e corporea, a lei sottomessa. Una volta conosciuto ciò, l'anima si libera di ogni puerile protervia e si apre alla santa religione.

Le Sacre Scritture soddisfano l'umana sete di conoscenza.

51.100. Dunque, messe da parte e ripudiate le frivolezze del teatro e della poesia, nutriamo e dissetiamo, con la meditazione e lo studio delle Sacre Scritture, l'animo stanco e tormentato dalla fame e dalla sete della vana curiosità, e che inutilmente aspira a ristorarsi e saziarsi con vuote immagini, simili a cibi dipinti: istruiamoci con questa salutare occupazione, davvero liberale e nobile. Se proviamo piacere per la straordinarietà degli spettacoli e per la bellezza, aspiriamo a vedere quella Sapienza che si estende da un confine all'altro con forza e governa con bontà eccellente ogni cosa. Che c'è, infatti, di più mirabile della forza incorporea che crea e governa il mondo corporeo? E che c'è di più bello di essa, che lo ordina e lo adorna?

Il ritorno a Dio attraverso le cose sensibili.

52.101. Dal momento che, come tutti riconoscono, queste cose si percepiscono tramite il corpo e che l'anima è migliore del corpo, essa non vedrà nulla da sé e ciò che vedrà non sarà di gran lunga più eccellente e superiore? Anzi, sollecitati da quel che giudichiamo ad esaminare la norma in base a cui giudichiamo e spinti dalle opere delle arti a considerare le leggi delle arti stesse, con la mente contempleremo quella bellezza a confronto della quale sono brutte quelle cose che, grazie ad essa, sono belle. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. In questo consiste il ritorno dalle realtà temporali a quelle eterne e il rinnovamento della vita con il passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo. C'è forse qualcosa che potrebbe non ricordare all'uomo che deve raggiungere la virtù, dal momento che possono svolgere tale funzione perfino i vizi? A che aspira, infatti, la curiosità se non alla conoscenza, che può essere certa solo se riguarda le realtà eterne e che non mutano mai? A che la superbia se non al potere che ha per scopo la libertà di azione, la quale è raggiunta solo dall'anima perfetta, sottomessa a Dio e rivolta con sommo ardore al suo regno? A che il piacere del corpo, se non al riposo che si trova solo dove non c'è nessuna indigenza e corruzione? Dunque, dobbiamo evitare l'infimo regno, ovvero le pene più gravi che possono toccarci dopo questa vita, dove non è più possibile ricordare la verità non essendo più possibile l'uso della ragione, in quanto essa non è più inondata dalla vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Affrettiamoci, dunque, e camminiamo finché è giorno, perché le tenebre non ci sorprendano. Affrettiamoci a liberarci della seconda morte, dove non c'è nessuno che si ricordi di Dio, e dell'inferno, dove nessuno rende onore a Dio.

I fini degli stolti sono diversi da quelli dei saggi.

53.102. Ma ci sono alcuni infelici che, disprezzando le cose che conoscono e godendo delle novità, preferiscono apprendere più che sapere, sebbene il sapere sia il fine dell'apprendere. Altri poi, senza tenere in alcun conto la libertà di azione, preferiscono la lotta più che la vittoria, sebbene la vittoria sia il fine della lotta. E altri ancora, non avendo alcuna cura per la salute del corpo, preferiscono il mangiare all'esser sazi, il godere degli organi genitali più che il patirne l'eccitazione. Altri, infine, preferiscono il dormire al non aver sonno. Eppure il fine di tutti quei piaceri è di non aver fame e sete, di non desiderare il rapporto sessuale e di non provare la stanchezza fisica.

53.103. Perciò, quelli che aspirano a raggiungere questo obiettivo, in primo luogo non provano curiosità, poiché sanno che la conoscenza certa è quella interiore e di essa godono, per quanto è consentito in questa vita. Quindi, messa da parte ogni pervicacia, raggiungono la libertà di azione, consapevoli che non opporsi all'animosità di alcuni è vittoria più grande e più facile, e mantengono questa disposizione per quanto è loro possibile in questa vita. Infine, ottengono anche il riposo del corpo, astenendosi da quelle cose che non sono indispensabili per questa vita: così gustano quanto è soave il Signore. Non avranno dubbi circa quel che li attende dopo questa vita e si nutrono di fede, di speranza e di carità in vista della propria perfezione. Dopo questa vita anche la conoscenza diventerà perfetta, perché, se ora la nostra conoscenza è incompleta, una volta raggiunta la perfezione, essa non sarà più tale. La pace, inoltre, sarà totale. Ora, infatti, nelle mie membra opera una legge che è in contrasto con quella della mia mente, ma la grazia di Dio, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, ci libererà da questo corpo di morte; perché, mentre siamo in cammino con il nostro avversario, in gran parte siamo d'accordo con lui. Allora, invece, il corpo godrà di perfetta salute e non proverà nessuna indigenza e stanchezza, perché questa realtà corruttibile, nel tempo e secondo l'ordine in cui avverrà la resurrezione della carne, si vestirà di incorruttibilità. Non c'è da meravigliarsi, pertanto, se ciò verrà concesso a coloro che nella conoscenza amano solo la verità, nell'azione solo la pace e nel corpo solo la salute; per essi infatti, dopo questa vita, si compirà ciò che in essa hanno amato di più.

Diversa è anche la sorte degli stolti e dei saggi.

54.104. A coloro, dunque, che fanno un cattivo uso di un bene così grande come quello della mente, ricercando al di fuori di essa soprattutto le cose visibili, dalle quali invece avrebbero dovuto essere indotti a contemplare e amare le cose intelligibili, saranno riservate le tenebre esteriori. Queste hanno il loro inizio certamente nel prudore della carne e nella debolezza dei sensi corporei. Chi trova piacere nelle lotte, rifuggirà dalla pace e si impiglierà in grandissime difficoltà; la guerra e la contesa, infatti, costituiscono l'inizio della massima difficoltà. Il fatto che gli vengano legate le mani e i piedi credo appunto che voglia significare che gli viene tolta ogni libertà di azione. Coloro che vogliono avere sete e fame, ardere dal desiderio e affaticarsi, per poter poi provare il piacere di mangiare, bere, unirsi carnalmente e dormire, amano l'indigenza, che è l'inizio delle sofferenze maggiori. Per essi, dunque, si compirà quello che è stato il proposito della loro vita, così che andranno là dove è pianto e stridore di denti.

54.105. Molti, in effetti, sono quelli che amano tutti questi vizi insieme; la loro vita, perciò, consiste nell'assistere a spettacoli, nel gareggiare, mangiare, bere, unirsi carnalmente e dormire, quindi nel tenere strette, nel loro pensiero, soltanto le immagini che traggono da questo genere di vita e nel fissare le regole della superstizione e dell'empietà, desumendole da tali immagini fallaci. A tali regole, che li inducono in errore, restano attaccati, anche se cercano di sottrarsi alle lusinghe della carne. Infatti, fanno cattivo uso del talento loro dato, cioè della perspicacia della mente, per la quale sembrano eccellere tutti coloro che sono chiamati dotti o colti o di ingegno vivace: la conservano avvolta in un sudario o sepolta in terra, cioè coperta e soffocata da cose voluttuose e superflue, o dalle cupidigie terrene. Perciò saranno loro legati mani e piedi, e saranno gettati nelle tenebre esteriori, dove sarà pianto e stridore di denti. Saranno sottoposti a questi tormenti non perché li hanno amati (chi mai infatti potrebbe amarli?), ma perché hanno amato le cose che ne sono l'origine, e quindi vi conducono inevitabilmente chi le ama. Coloro, infatti, che preferiscono andare piuttosto che ritornare o arrivare, devono essere mandati nei luoghi più lontani, perché sono carne, un soffio che va e non ritorna.

54.106. Chi invece fa uso dei cinque sensi del corpo per credere ed annunciare le opere di Dio e per promuovere l'amore per Lui, o dell'azione o della conoscenza per riacquistare la pace e conoscere Dio, entra nella gioia del suo Signore. È per questo che il talento, che viene tolto a chi ne fa cattivo uso, è dato a chi ha fatto buon uso dei cinque talenti. Non perché si possa trasferire l'acutezza dell'intelligenza, ma perché con ciò si capisca che la possono perdere i negligenti e i malvagi, mentre la possono ottenere i diligenti e i pii, anche se siano gli uni più dotati di ingegno e gli altri di meno. Quel talento non è dato a chi ne ha ricevuti due (infatti chi lo possiede già si comporta bene nell'azione e nella conoscenza), ma a chi ne ha ricevuti cinque. Infatti, chi si affida solo alle realtà visibili, cioè a quelle temporali, non possiede ancora l'acutezza della mente che gli consente di contemplare le realtà eterne; invece, la può ottenere chi rende lode a Dio come all'artefice di tutte le realtà sensibili: ne dà prova con la fede, Lo attende con la speranza e Lo cerca con la carità.

Esortazione a seguire la vera religione.

55.107. Stando così le cose, vi esorto, o uomini carissimi e a me vicini, e con voi esorto me stesso, a correre quanto più celermente possibile verso la meta a cui Dio ci chiama attraverso la sua Sapienza. Non amiamo il mondo, perché tutto quello che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e vanità mondana. Non desideriamo di corrompere e di lasciarci corrompere dal piacere della carne, per non incorrere nell'ancora più miserevole corruzione dei dolori e dei tormenti. Non amiamo le contese, per non essere consegnati in potere degli angeli che ne gioiscono, ed essere così umiliati, incatenati e percossi. Non amiamo gli spettacoli visibili per evitare che, con l'allontanarci dalla verità e con l'amare le ombre, siamo gettati nelle tenebre.

55.108. Facciamo in modo che la nostra religione non consista in vuote rappresentazioni. Una cosa qualsiasi infatti, purché vera, è migliore di tutto quello che può essere immaginato ad arbitrio; non per questo, comunque, dobbiamo venerare l'anima, sebbene essa sia un'anima vera, quando immagina cose false. Un vero filo di paglia è migliore della luce prodotta dalla vana immaginazione di chi fantastica a suo piacimento; tuttavia, è da folle ritenere che si debba venerare il filo di paglia che vediamo e tocchiamo. Facciamo in modo che la nostra religione non consista nel culto delle opere umane. Sono migliori, infatti, gli artefici che le hanno fabbricate, anche se non è questo un motivo per venerarli. Che non consista nel culto di animali; migliori di essi, infatti, sono anche gli ultimi tra gli uomini che, comunque, non dobbiamo venerare. Che non consista nel culto dei morti; perché, se sono vissuti piamente, è da ritenere che non ricerchino tali lodi, ma vogliano invece che veneriamo Colui per la cui luce gioiscono, condividendo con essi il loro merito. Dobbiamo dunque rendere loro onore come esempi, non come oggetto di culto religioso. Se essi invece hanno vissuto male, ovunque siano, non dobbiamo venerarli. Che non consista nel culto dei demoni, perché ogni superstizione, mentre per essi è un onore e un trionfo, per gli uomini è un grande tormento e una pericolosissima infamia.

55.109. La nostra religione non consista nel culto delle terre e delle acque, perché già l'aria, anche piena di caligine, è più pura e più luminosa di esse; comunque non la dobbiamo venerare. Come pure non consista nel culto dell'aria più pura e più limpida, perché si oscura quando manca la luce; peraltro, più puro di essa è lo splendore del fuoco, ma non per questo lo dobbiamo venerare, dal momento che lo accendiamo e lo spegniamo a nostro piacimento. Non consista nel culto dei corpi eterei e celesti perché, sebbene siano giustamente anteposti a tutti gli altri corpi, tuttavia sono inferiori a qualsiasi forma di vita. Se poi sono animati, qualsiasi anima è per se stessa migliore di ogni corpo animato e, tuttavia, nessuno riterrà degna di venerazione un'anima soggetta ai vizi. Non consista nel culto di quella vita che si dice propria degli alberi, perché è una vita priva di sensibilità. È dello stesso genere di quella da cui procede anche l'armoniosa struttura del nostro corpo, nonché la vita delle ossa e dei capelli, che vengono tagliati senza che se ne provi sensazione alcuna. La vita sensibile è di certo migliore di tale vita e, tuttavia, non dobbiamo venerare la vita degli animali.

55.110. Non consista la nostra religione neppure nella stessa perfetta e sapiente anima razionale, né in quella preposta al governo dell'universo o delle sue parti, né in quella che nei grandi uomini attende la trasformazione che la rinnovi, perché ogni vita razionale, se è perfetta, obbedisce all'immutabile verità che le parla interiormente senza strepito, mentre, se non le obbedisce, diviene viziosa. Non è per se stessa perciò che eccelle, ma per quella verità cui obbedisce di buon grado. Di conseguenza, ciò che è venerato dal più elevato degli angeli deve essere venerato anche dall'ultimo degli uomini, perché è proprio non venerandolo che la natura umana è divenuta l'ultima. L'angelo non è saggio per un motivo e l'uomo per un altro, né l'angelo è veritiero per un motivo e l'uomo per un altro; ma entrambi sono tali per un'unica immutabile sapienza e verità. Infatti, nell'ambito del disegno di salvezza che percorre i tempi è avvenuto che la stessa Virtù divina, l'immutabile Sapienza di Dio, consustanziale e coeterna al Padre, si degnasse di assumere la natura umana, per insegnarci in tal modo che l'uomo deve venerare ciò che deve venerare ogni creatura dotata di intelletto e ragione. Crediamo che anche gli angeli migliori e i ministri più eccellenti di Dio vogliano che, insieme con essi, veneriamo l'unico Dio, la cui contemplazione è per loro causa di beatitudine. Non è certo la vista di un angelo che ci rende beati, ma piuttosto quella della verità, per la quale amiamo anche gli angeli e con loro ci rallegriamo. E non proviamo invidia per il fatto che godono della verità in maniera più adeguata e senza alcun impedimento che li ostacoli; al contrario, li amiamo di più perché anche a noi il nostro comune Signore ha ordinato di sperare qualche cosa di simile. Perciò li onoriamo con amore, non con animo da schiavi, e senza innalzare loro templi; infatti non vogliono essere onorati così, perché sanno che noi stessi, quando siamo buoni, siamo templi del sommo Dio. A buon diritto, pertanto, nelle Scritture è detto che l'angelo proibì all'uomo di venerarlo e gli prescrisse invece di venerare l'unico Dio, a cui anche lui era sottomesso.

55.111. Gli angeli poi, che ci invitano a servirli e a venerarli come dèi, sono simili ai superbi, i quali, se fosse loro consentito, aspirerebbero ad essere venerati nello stesso modo. Comunque è più pericoloso venerare quegli angeli che tollerare questi uomini. Ogni dominio dell'uomo sull'uomo termina con la morte o di chi domina o di chi serve; invece, la sottomissione alla superbia degli angeli cattivi riguarda anche il tempo che segue la morte, perciò è motivo di maggior timore. Inoltre, chiunque può rendersi conto che, mentre sotto il dominio di un uomo, ci è ancora consentito di esercitare la libertà di pensiero, invece, sotto il dominio di questi angeli, trepidiamo per la nostra stessa mente che è l'unico occhio di cui disponiamo per contemplare e cogliere la verità. Se, dunque, in conformità ai nostri vincoli sociali, siamo sottomessi a tutti gli organi di potere dati agli uomini per governare lo Stato, rendendo a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, non c'è da temere che qualcuno esiga da noi un analogo comportamento dopo la morte. Una cosa, infatti, è la sottomissione dell'anima, un'altra la sottomissione del corpo. I giusti, che ripongono solo in Dio tutte le loro gioie, quando qualcuno rende gloria a Dio per le loro azioni, si rallegrano con costui; quando invece sono loro ad essere lodati, correggono, per quanto possono, coloro che compiono questo errore; se però non è possibile, non si compiacciono con loro, ma vogliono che si emendino da quel vizio. Ora, se gli angeli buoni e tutti i santi ministri di Dio sono simili ai giusti o addirittura superiori a loro in fatto di purezza e di santità, che timore abbiamo di offenderne qualcuno, a meno che non siamo superstiziosi, quando, con il loro aiuto, cerchiamo di raggiungere l'unico Dio e a Lui solo leghiamo le nostre anime (da dove si crede che provenga il termine " religione "?), ponendoci al riparo da ogni superstizione?

55.112. Ecco, io venero un solo Dio, unico Principio di tutte le cose, Sapienza per la quale è sapiente ogni anima sapiente e Dono per cui è beato ogni essere beato. Ogni angelo che ama questo Dio, sono certo che ama anche me. Ogni angelo che dimora in Lui e può ascoltare le preghiere umane, mi esaudisce in Lui. Ogni angelo che ha Lui come suo bene, in Lui mi aiuta e non può provare invidia nei miei confronti perché ne partecipo. Mi dicano dunque gli adoratori o gli adulatori delle parti del mondo quale altro essere, che non sia quello ottimo, non leghi a sé quanti venerano l'unico essere che i migliori amano, della cui conoscenza godono e che consente loro, a Lui ricorrendo come loro principio, di diventare migliori. Senza dubbio, invece, non deve essere venerato quell'angelo che ama i suoi atti di superbia, che rifiuta di essere sottomesso alla verità e che, volendo gioire del suo bene particolare, si è allontanato dal bene comune e dalla vera felicità e che soggioga e opprime tutti i malvagi, ma al quale nessun uomo buono è dato in suo potere se non per essere messo alla prova. La sua gioia è la nostra miseria, il suo danno il nostro ritorno a Dio.

55.113. La religione, dunque, ci leghi al Dio unico e onnipotente, dal momento che tra la nostra mente, con la quale lo riconosciamo come Padre, e la verità, cioè la luce interiore mediante la quale compiamo questo atto, non vi è interposta nessuna creatura. Veneriamo perciò in Lui e con Lui anche la stessa Verità, in nulla dissimile da Lui, la quale è forma di tutte le cose che dall'Uno sono state fatte e all'Uno tendono. Così appare chiaro alle anime spirituali che tutte le cose sono state fatte secondo questa forma, che sola porta a compimento ciò a cui tutte le cose aspirano. Tuttavia, le cose non sarebbero state create dal Padre mediante il Figlio, e non rimarrebbero intatte nei limiti della loro natura, se Dio non fosse sommamente buono: Egli non ha provato invidia nei confronti di nessuna natura che, per opera sua, poteva essere buona e ha consentito alle cose di rimanere nel bene stesso, alcune per quanto volessero, altre per quanto potessero. Perciò, insieme al Padre e al Figlio, dobbiamo venerare e restare fedeli al Dono stesso di Dio, ugualmente immutabile: Trinità di un'unica sostanza, unico Dio dal quale siamo, per il quale siamo e nel quale siamo: ce ne siamo allontanati cessando di essere simili a Lui, ma non ci ha permesso di perire. Egli è il principio al quale ritorniamo, la forma che seguiamo e la grazia per cui siamo riconciliati: l'unico Dio, per la cui opera siamo stati creati, per la cui somiglianza siamo formati all'unità e per la cui pace aderiamo all'unità. Egli è il Dio che ha detto: Sia fatto, ed è il Verbo per mezzo del quale fu fatto tutto ciò che ha una sostanza ed una natura; Dono della sua bontà, per il quale piacque al suo autore e si legò con Lui, affinché non andasse perduto nulla di ciò che da Lui fu fatto per mezzo del Verbo. È l'unico Dio per la cui opera creatrice viviamo, per la cui rigenerazione viviamo secondo sapienza, e per il quale, amandolo e godendone, viviamo felicemente. È l'unico Dio dal quale, per il quale e nel quale sono tutte le cose. A Lui sia gloria nei secoli dei secoli. Così sia.


Sant'Agostino d'Ippona (5/5)