Mercoledì delle ceneri
Oggi incomincia la Santa Quaresima. La Santa Quaresima ha questo significato: di esercitare la penitenza per prepararci, non solo con delle belle forme liturgiche, a celebrare il mistero della Redenzione nella Passione e Morte del Signore, ma con della realtà morale, opere buone, non soltanto parole o atteggiamenti esteriori. Confesso che quando nella liturgia mi capita di dovere pronunciare questo nome "penitenza" – e in questo tempo capita sempre – io provo una certa difficoltà, perché ho l'impressione che questa parola sia circondata da una sordità pressoché assoluta, che manchi una risposta all'invito essenziale della Quaresima che è penitenza, che la maggior parte di noi non ci pensi affatto. Scusate, io non giudico nessuno, ma così da quel che succede, si dice e pare, credo che tra noi ben pochi siano disposti a fare penitenza, e questo è grave, perché noi finiamo col fare tante belle funzioni con le Ceneri, non parliamo poi quelle della Settimana Santa, ma non ci accostiamo affatto alla Croce di Nostro Signore. Mi domando: perché questo?
Le ragioni sono molte e non possono essere esposte in una breve omelia come stasera. Però c'è una ragione della quale voglio discorrere con voi. La ragione è un equivoco: molti, quando si parla di penitenza, credono che si debba far riferimento ai flagelli, alle catenelle, a tutto quello che strazia la carne, che fa sanguinare, patire, che mette in pericolo d'infezioni. E' un equivoco. Tutto questo certamente è penitenza, e non sarei io che vengo qui a dire che tutto questo non lo è; lo è. Ma attenti, non è l'unica penitenza!
Ce n'è un'altra che può costare anche più di questa, ed è la penitenza spirituale, quella che si fa nell'anima, che gli altri non vedono, che gli altri non lodano, che gli altri non mettono in conto attivo per il nostro onore e per la nostra reputazione.
Perdonare quando non se ne ha voglia è penitenza spirituale e in certi casi può valere una Quaresima intera, non come si fa oggi, ma come si faceva una volta mangiando poco. Rinunciare a sentimenti di vanità o d'ambizione che vagolano in tempi vuoti o anemici dello spirito è penitenza, se c'è la volontà di farla, e può valere più delle catenelle e dei flagelli. Rinunciare al giudizio sul prossimo quando questo non è necessario per compiere un dovere; rinunciare ad ogni mala conclusione sul contegno, sulla fama, sulla valutazione del prossimo può costare molto, più che un digiuno prolungato, perché siamo molto meschini e, quando non abbiamo statura davanti a Dio, ce la diamo stupidamente, incolpando gli altri, pretendendo atteggiamenti contro qualcuno, chiunque esso sia, e giudicando senza avere nessun seggio da magistrato: questa è penitenza! Rinunciare a parole o a fatti che possono portare a noi un sentimento di ammirazione o di onore, che possono accrescere la nostra fama, può essere una grandissima penitenza, costa. Potrei continuare fino a domani, ma questo volevo dire: attenti che non c'è soltanto la penitenza corporale! Quella qualche volta ci vuole, qualche volta; i Santi l'hanno usata questa penitenza in modo che a noi fa quasi paura e hanno fatto bene a fare così. Noi abbiamo tanti altri elementi di penitenza; sopportare certa gente con animo sereno, tranquillo, sorridente; imporsi una vera rivolta del nostro io, che si sentre grande quando può vendicarsi ed è altrettanto meschino; aver questa pazienza e tacere e portare davanti a Dio perché non maledica nessuno, benedica tutti.
Vedete, è stato scritto: "Nolite tangere christos meos" cioé "Attenti a non toccare i miei unti" (cfr Sal 105,15). Io potrei scrivere un libro con quello che ho trovato nelle visite pastorali su come Dio si assume di far giustizia per chi ha toccato i suoi unti. Ma è necessario che i suoi unti sappiano tacere, perdonare, sacrificarsi, accettare, soffrire ed offrire. Accanto alle catenelle e accanto ai chiodi, a quelle robe di ferro, metteteci queste altre. Le potete esercitare tutti e avrete il merito di non essere visti e avrete qualche cosa che veramente vi collega alla levatura dei Santi.
Omelie per l'anno liturgico, Card. Giuseppe Siri