Le attività terrestri come fonte di santità

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Quando una persona è convinta della brevità della vita, dell’insufficienza di essa al conseguimento di ideali sublimi e dell’impossibilità in cui essa si trova di rivelare adeguatamente o di condurre alla perfezione il vero cristiano, quando sente profondamente che l’Assoluto è solo nell’altro mondo e che l’eternità è il solo oggetto capace di fare appello e di riempire i suoi pensieri, corre il rischio di svalutare oltre misura la vita presente e di dimenticarne la reale importanza; può anzi desiderare di spendere il tempo del suo soggiorno terreno disinteressandosi positivamente delle attività e dei doveri che la sua condizione le impone.

È necessario invece ricordare che le occupazioni del mondo presente, benché in sé non siano soprannaturali, sono, dopo tutto, la via al Paradiso; pur non essendone il frutto, sono il seme almeno dell’immortalità, e posseggono un valore non intrinseco ma in funzione del proprio fine.

Ammetto che convincersi di ciò sia tutt’altro che facile. È anzi difficile afferrare e collegare insieme la necessità di tenere lo sguardo fisso alla vita futura e nello stesso tempo agire come persone normali nella vita presente. Chi per natura è incline alla meditazione, finisce facilmente per trascurare i doveri concreti che pesano su di lui con la scusa di dedicarsi alla contemplazione della gloria divina, fino al punto di dimenticarsi che per la gloria di Dio bisogna anche operare.

In vari modi il pensiero del mondo futuro può condurre gli uomini a trascurare i loro doveri in quello presente. Ma ogni qualvolta ciò avviene, possiamo esser certi che c’è qualcosa d’errato e di non cristiano, non nel pensiero del mondo a venire, è chiaro, bensì nel modo di pensarvi. Per quanto, infatti, la contemplazione possa, in certi periodi e per determinate persone, interferire e giustamente con le occupazioni della vita, e per quanto tale contemplazione sia non solo permessa ma anche comandata a tutti in certe ore del giorno, resta vero nondimeno che non è autentica meditazione, ma inganno, quella che ci fa perdere il tempo in sogni o, rendendoci indolenti, ci ritrae dai nostri doveri e porta il disordine nella nostra vita.

In vari modi, abbiamo detto, il pensiero del mondo invisibile può renderci un tale ingrato servizio, ma certo le cose non vanno mai peggio di quando entra in noi la convinzione che sia necessario comportarsi così. È una tentazione a cui si trova esposto di continuo chi vuol essere pio, specialmente se è nuovo alla vita spirituale. Accade di frequente che un uomo del genere provi una specie di disgusto per le faccende comuni, come fossero qualcosa di troppo basso. Sapendo di dover essere ciò che la Scrittura chiama « l’uomo spirituale » (1 Cor., 2, 15), egli si immagina che per diventarlo occorra assolutamente rinunziare ad ogni seria attività terrena, disinteressarsene, disprezzando i naturali e normali piaceri della vita. Si fa un dovere di violare gli usi della società assumendo un’aria melanconica e un triste tono di voce; si mantiene silenzioso e assente anche in mezzo agli amici e ai familiari, quasi dicesse a se stesso: - Ho preoccupazioni troppo alte per partecipare a queste effimere, miserabili cose - ; agisce come per forza e a fatica nel proprio ambiente; cerca di piegare gli avvenimenti ai fini di ciò che, secondo lui, è la riflessione spirituale; si serve di frasi e di espressioni scritturali, deliziandosi di farne scambio con le persone di vedute affini alle proprie e dà sensibili segni di commozione quando sente parlare della Bibbia o di altri argomenti religiosi.

Che le occupazioni terrene di un uomo possano essere una croce, non lo nego. E neppure penso a negare che in certe circostanze sia persino giusto ritirarsi dal mondo. Ma qui io parlo del caso di una persona che è obbligata ad adempiere la sua missione terrena o che vi rimane impegnata pur nutrendo verso di essa sentimenti di insoddisfazione, mentre dovrebbe pensare che è suo dovere glorificare Iddio proprio in tale missione, nell’ambito di essa e per mezzo di essa, senza sottrarvisi: « Per diligenza non tardi, di spirito ferventi, a Dio servendo » (Rom., 12, 11).

Ciò che porta il soggetto da noi studiato a commettere questo errore è la constatazione che la gran massa di coloro che si interessano con attenta diligenza degli affari terreni, lo fa precisamente per spirito terreno, per un basso e materiale amore del mondo. Egli ritiene di conseguenza suo dovere disinteressarsi del tutto degli affari contingenti. Che la maggior parte degli uomini sia assorbita dal mondo, non si può nasconderlo, tanto che ho un certo timore a par­lare della necessità di sostenervi una parte attiva, quasi sembri io approvi questa povera dedizione alle cose del tempo e del senso, questo amore al trambusto e all’indaffararsi, questa sete di guadagno, di influenza e di dominio che abbonda ovunque. Per quanto dannoso sia rimanere inerti e indifferenti di fronte ai doveri umani, erroneamente ritenendo cristiana una tale condotta, assai peggio è ren­dersi schiavi del mondo e affondare il cuore nei beni ter­reni. Nulla conosco di più temibile dello stato d’animo che probabilmente è caratteristico nel nostro paese e nella pro­sperità del nostro paese trova il suo incentivo. Dello spirito di ambizione parlo, per usare una parola forte che d’al­tronde è l’unica ad esprimere appieno il mio pensiero, di quella bassa ambizione che spinge ciascuno a preoccuparsi del successo e dell’ascesa nella vita, ad accumulare denaro, a sopprimere i rivali e a soppiantare i primi arrivati. Ecco un quadro della mentalità cui, più o meno, a seconda dei differenti temperamenti, tutti si ispirano nel loro atteggia­mento verso il mondo. Meglio, molto meglio sarebbe allon­tanarsi totalmente dal mondo piuttosto che legarsi ad esso così, meglio fuggire come Elia nel deserto, che servire a Baal e ad Astarot in Gerusalemme.

Ma i dispregiatori del mondo che più sopra ho de­scritto, sono ben lontani dal possedere lo spirito di Elia. Fuggire dal mondo o resistergli strenuamente presuppone una energia e una forza d’animo che tali persone non hanno. Esse né rinunciano alle preoccupazioni terrene né vi si sprofondano con entusiasmo: si accontentano di rimanere nel mezzo, compiendo ogni cosa con indolenza e tra­scuratezza, nella convinzione che ciò significhi essere spi­rituali; e ci sono pure dei casi in cui esse parlano con di­sprezzo di preoccupazioni alle quali in realtà sono attaccatissime.

È certamente possibile invece servire al Signore nella propria missione terrena, pur non essendo affatto indolenti, e conservarsi liberi dal mondo pur senza allontanarsene. Qualunque sia la nostra occupazione, tutto in essa può essere indirizzato alla gloria di Dio; possiamo compiere ogni cosa volentieri, per il Signore e non per gli uomini, essendo attivi e raccolti ad un tempo. Ecco ora alcuni esempi desti­nati a gettar maggior luce sulle asserzioni precedenti:

1) «Fate tutto per la gloria di Dio, dice san Paolo, sia che mangiate sia che beviate» (1 Cor., 10, 31). Nulla è tanto comune o insignificante da non poter contribuire a glorificare il Signore. Riprendiamo il caso già da noi ricordato, di un uomo che da qualche tempo abbia scelto preoccupazioni più serie di quelle che era solito far sue in passato, e che abbia deciso di vivere più religiosamente. In conseguenza del suo nuovo atteggiamento egli prova disgusto per le proprie occupazioni, si tratti di commercio o di ogni altra attività che conceda scarso sviluppo alle facoltà dello spirito, e sente che meglio si troverebbe altro­ve, per quanto al momento eserciti una professione onesta e gradita a Dio. Il nostro poco illuminato personaggio diviene allora impaziente e forse abbandona anche la pro­pria attività. O, se non la abbandona, va avanti con trascu­ratezza e con indolenza. Il vero convertito invece dice a se stesso: - Se si tratta di un’occupazione penosa, tanto meglio. Non merito nulla di più… sarebbe ostentazione, aspirare a qualcosa d’altro. Volentieri quindi intendo accet­tare una condizione che, all’insaputa di tutti, mi sarà pe­nosa. Invece di lamentarmi con Dio, mi occuperò con dili­genza di ciò che non mi va a genio: rinnegherò me stesso…; non c’è sofferenza che non possa essere sopportata in modo passabile confortati dal pensiero di Dio, dalla sua grazia e da una solida volontà… Se c’è qualche aspetto delle mie occupazioni che mi è particolarmente sgradito, se per esem­pio mi si chiede di muovermi assai mentre desidererei di starmene a casa, o di condurre vita sedentaria quando preferirei il moto, se si esige che mi alzi presto mentre vorrei alzarmi più tardi o si obbliga proprio me, che amo la com­pagnia, a stare solo, intendo in futuro scegliere di prefe­renza questi aspetti sgradevoli, nella misura in cui sono compatibili con la mia salute e non divengono un’oppres­sione. Capisco che le mie idee religiose mi sono di ostacolo: la gente mi guarda con diffidenza, seccata della mia coscien­ziosità. Per farsi strada nella vita, lo so, ci vuole assai più dedizione agli affari terreni di quanto i miei doveri verso Dio mi permettano di avere o di quanto io possa desiderare senza cadere in tentazione. Non devo e, con l’aiuto di Dio, non voglio sacrificare nulla della mia vita spirituale. Re­sterò fedele alla preghiera e non accetterò modi di agire ed usi mondani; se mi troverò in svantaggio nella vita, se guadagnerò meno o perderò degli amici, si tratterà di umiliazioni che, per quanto difficili a sopportare, mi con­vengono come espiazione dei miei peccati e come atto di omaggio al Signore.

2) Un secondo motivo ispiratore della condotta del cristiano sarà il desiderio di far risplendere davanti agli uomini la propria luce interiore e di conquistare gli altri attraverso una esistenza attiva e diligente. Egli prometterà a se stesso: - I miei genitori, i miei educatori o il mio principale non dovranno poter mai dire di me che la religione mi ha rovinato. Mi vedranno al contrario più attivo e solerte di prima, i miei compagni mai avranno occa­sione di ridere della mia ostentazione: non ostenterò mai nulla, ma compirò, con la benedizione di Dio, il mio do­vere in modo virile. Nei limiti delle mie possibilità cercherò di non disonorare il suo servizio con nessuna stranezza, o modi di fare stravaganti, insinceri, sdolcinati o innaturali. Tutti anzi vorrei potessero accorgersi che la vita interiore non solo avvicina a Dio, ma conferisce pure un visibile valore agli occhi del mondo. Quale nobile risposta alle gra­zie che Dio mi ha concesse darei, se potessi rendere più vivo nel cuore degli altri quel Vangelo che egli mi ha rive­lato, con la mia rettitudine, onestà, prudenza, franchezza e fraterna comprensione!

3) Altri principi che possono portare il cristiano all’esplicazione completa della sua vocazione sono la rico­noscenza all’Onnipotente e l’intima vita dello Spirito Santo nell’anima. Il cristiano deve vedere Iddio in tutte le cose e riportarsi sovente col pensiero all’esistenza terrena del Sal­vatore. Il Cristo fu addestrato ad un’umile lavoro: il cri­stiano, quando lavora, penserà alla fatica di lui; ricorderà che Gesù « discese con i suoi parenti e tornò a Nazareth ed era ad essi soggetto » (Lc., 2, 51), che compiva lunghi viaggi a piedi, che sopportava la vampa del sole e la piog­gia e « non aveva dove posare il capo » (Mt., 8, 20). Si accorgerà allora che si può trovare vera unione col Sal­vatore anche nella fatica. Com’è necessario vederlo nelle occupazioni di ogni genere che egli assegna ai suoi eletti. Il credente si incontrerà con Cristo nell’esercizio della pro­pria vocazione umana. Non sarà per averla trascurata, che potrà godere maggiormente della presenza del Signore: lo sentirà invece vicino a sé nel dovere quotidiano, elevato quasi alla dignità di un sacramento. Le faccende di que­sto mondo diverranno allora un vero dono di Dio, merite­voli proprio per questo di essere amate.

4) Anche la vera umiltà può condurci al desiderio di onorare, nei limiti del possibile, Iddio, attraverso le occu­pazioni umane, e non al desiderio di abbandonarle. Il Cri­sto riserva senza alcun dubbio le sue benedizioni più alte a coloro che il mondo disprezza: « Quando sarete invitati, ha consigliato ai discepoli, andate a mettervi all’ultimo po­sto » (Lc., 14, 10) ; « Chi tra voi vorrà essere maggiore, sarà il vostra servo » e « Chiunque si abbasserà, sarà innal­zato » (Mt., 20, 26; 23, 12). Egli stesso, del resto, ha lavato i piedi dei suoi apostoli. Sono esempi che de­vono necessariamente agire sul cristiano; egli si darà con amore al proprio lavoro, senza procrastinare di un attimo, felice di farsi umile per partecipare a quelle condizioni di vita che hanno attirato le più speciali benedizioni di Gesù.

5) Le occupazioni terrene forniranno pure al cri­stiano un mezzo per tenere lontani i pensieri inutili e vani. Spesso nascono nel cuore cattivi sentimenti, proprio perché l’ozio li favorisce. L’uomo che ogni giorno ha il suo dovere da compiere, e che ora per ora lo esegue, si sottrae ad una moltitudine di tentazioni: esse non hanno il tempo necessario per prendere il sopravvento su di lui. Rimugi­nare gli insulti ricevuti, sognare un piacere vietato, rim­piangere le soddisfazioni perdute o la scomparsa degli amici, subire gli assalti di pensieri impuri o vergognosi, sono tutte cose a cui sfugge chi è assiduo al proprio lavoro e ben occu­pato. L’ozio è il padre dei vizi. L’inattività è il primo passo sulla ripida discesa che conduce all’inferno.

La differenza dei motivi a cui, nel compiere la mede­sima azione, si ispirano il credente e l’uomo del mondo, è palese. Prendiamo il caso di una persona gravemente afflit­ta dalla morte, per esempio, di un membro della famiglia. Gli uomini di mondo, che non cercano conforto nella reli­gione, non potendo sopportare il pensiero di una perdita irreparabile, si immergono nell’attività per distrarsi. Anche il cristiano, in tali circostanze, si comporta così: ma egli lo fa per non abbandonarsi ad una sterile disperazione e per non restare preda dello sconforto. Egli è convinto di piacere maggiormente a Dio e di assicurarsi una pace più profonda, mettendo a frutto il proprio tempo; sa infatti che, agendo così, ben lontano dal dimenticare le persone amate, potrà invece godere in modo più alto del loro ricordo.

Ed ecco, in poche parole, la nostra conclusione: il la­voro che ad Adamo fu imposto come una pena, nostro Signore con la sua venuta lo ha santificato, facendone uno strumento di grazia e un sacrificio di lode, un sacrificio che tutti possiamo con gioia offrire in nome suo al Padre.

 

John Henry Newman (Estratto dal Sermone: Doing Glory to God in Pursuits of the World, PPS, VIII, 11, 154-169. - NEWMANFRIENDSINTERNATIONAL.org)


Documento stampato il 28/03/2024