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Montefumo

Montefumo cela un luogo reale, così come Jacopo da Nonantola nasconde il nome di un noto giornalista e scrittore, autore di un volume pubblicato da Cantagalli. Il racconto si snoda attraverso l’immaginaria testimonianza di Isaia Gandolfi, che documenta puntigliosamente le vicende a cui ha assistito nell’ultimo scorcio della sua vita, quando il convento di cui è bibliotecario viene travolto dalla rivoluzione post conciliare.

Nell’antico monastero che domina il paese di Montefumo, accanto al vecchio don Antonio, osteggiato dagli altri preti perché porta la tonaca e critica la vita sregolata del clero, convivono don Dino, il rettore, fragile e incerto; don Alcide, l’esperto di amministrazione; don Gualtiero, teologo della liberazione e ideologo del gruppo; don Carlo, che cerca di non dispiacere a nessuno; il giovane don Leo, affamato di spiritualità e di conoscenza.

Con l’eccezione di don Antonio e di don Leo, i confratelli “appartengono a quella generazione di preti tra i cinquantacinque e i settantacinque anni che potremmo definire i sessantottini della chiesa” (pag. 13). Interpreti del Concilio, essi considerano quell’evento come una frattura incolmabile con il passato, dividendo la storia della chiesa in due epoche separate e contrapposte: prima e dopo il Vaticano II.

A Montefumo, a partire dalla fine degli anni Sessanta, accade di tutto: il convento è trasformato in un albergo; l’aborto e la droga si diffondono tra i parrocchiani; gli immigrati reclamano una chiesa per trasformarla in moschea; gli scandali sessuali travolgono il clero locale; perfino le messe nere profanano i luoghi sacri, mentre tra monaci e suore si aggravano i problemi economici ed esplodono quelli sentimentali. Sono di fronte la debolezza degli uomini e la forza del male, in una parola l’esistenza del peccato, e la colpevole assenza di quei preti che dovrebbero ricordarlo agli uomini.

La liturgia è al centro dei cambiamenti che sconvolgono Montefumo. Don Alcide, incaricato dalla Curia della “ristrutturazione” del convento, “fece demolire le balaustre delle comunioni; tolse il Santissimo dall’altare maggiore, relegandolo presso una cappella laterale; costruì il nuovo altare rivolto al pubblico usando come mensa quella del vecchio, sicché l’antico tabernacolo rimase affacciato nel vuoto. Il suo motto era ‘lavoriamo per la chiesa rinnovata’” (pag. 10). Don Leo non approva e ama citare Bernanos: “Cosa rimprovero agli uomini di chiesa? Di averci laicizzati” (pag. 45).

Egli è convinto che “la chiesa è come una grande barca finita in mezzo alla più terribile tempesta di tutti i tempi, e mentre il Papa regge il timone a fatica, la ciurma ubriaca richiede continui cambi di rotta pur non sapendo dove dirigersi” (pag. 88). Dai dialoghi ora accesi, ora rassegnati, della comunità di Montefumo emerge il quadro di una battaglia interna alla chiesa, che il “progressista” don Gualtiero riassume in questi termini: “Certo che ci sono due chiese, quella nuova che ha davanti a sé il futuro indicato dal Concilio Vaticano II, la chiesa con meno angeli e più uomini, la chiesa che predica la giustizia, che si schiera con i poveri e i diversi, la chiesa che si preoccupa del benessere di tutti, la chiesa che si spoglia degli orpelli, delle vecchie liturgie, che rifiuta la visione di un Dio incombente e punitivo, che predica la libertà da tutti i vincoli imposti nel passato in nome della religione, che tiene il passo con la scienza e ne accetta le scoperte rivoluzionarie, rinunciando ai roghi.

Poi c’è l’altra chiesa, quella che non ha digerito il Concilio, che tenta la restaurazione, che enfatizza i valori della liturgia, che pensa all’Aldilà e non vede le ingiustizie dell’al di qua, che si blinda dietro valori morali che la società moderna non accetta più” (pp. 133-134).

La lettura di “Montefumo” ci conferma che in realtà non ci sono due chiese: ve ne è una sola, immobile nella sua coerenza, tagliente nei suoi giudizi, splendente nel suo volto immacolato, misteriosa nella sua sacralità. Davanti a essa esiste solo una molteplicità di negazioni, tanto numerose quanto sono le opinioni di chi vorrebbe costruirsi una religione a propria misura, rifiutando quella immutabilmente fondata da Gesù Cristo. E’ di questa frammentazione che Jacopo da Nonantola ci dà il quadro impietoso e dolente.

Leggendo la sua prosa, animata da amarezza e ironia, ma con tratti di passione e di sdegno, ci si rende conto che Montefumo potrebbe essere indistintamente un villaggio delle Romagne, della Provenza o della Baviera, perché esso rappresenta il microcosmo di una crisi che si allarga alla cristianità intera; una crisi che l’autore conosce bene perché, come si intuisce da queste pagine, ha molto viaggiato, forse a causa della sua professione, e ha molto letto, non trascurando la letteratura teologica e spirituale. Ciò che egli ci propone è, in ultima analisi, un esame di coscienza sulla situazione odierna della chiesa. 


Roberto de Mattei (articolo tratto da Il Foglio del 09-05-2012)