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4/E il Verbo si è fatto carne

«Da principio era il Verbo e il Verbo era Dio... e il Verbo si è fatto carne ed ha abitato tra noi».

Cristo è il Verbo incarnato. La Rivelazione ci insegna che la seconda: persona della SS. Trinità, il Verbo, il Figlio, ha preso la natura umana per unirsela personalmente. E' questo il mistero dell'Incarnazione. Fermiamoci un poco a considerare questo dogma ineffabile e commovente d'un Uomo-Dio. E' il mistero fondamentale sul quale si appoggiano tutti gli altri misteri di Gesù. La loro bellezza, il loro splendore, la loro virtù, la loro forza, il loro valore scaturiscono da questa ineffabile unione dell'umanità alla divinità. Non lo comprenderemo bene se prima non avremo considerato questo mistero in se stesso e nelle generali conseguenze che ne derivano. Gesù è Dio ed uomo: se noi vogliamo conoscere la sua persona, partecipare ai suoi stati, dobbiamo procurare di comprendere non soltanto ch'Egli è il Verbo, ma ancora che questo Verbo si è fatto carne, e se noi vogliamo onorarlo degnamente dobbiamo, e riconoscere la realtà della sua umana natura ed adorare la divinità alla quale questa natura si è unita.

Che cosa vi è in Cristo, secondo la fede?

Due nature, la natura umana e la natura divina; essendo Cristo tutt'insieme Dio perfetto ed uomo perfetto. Inoltre queste due nature sono unite in un modo cosi stretto che non vi è che una sola persona, quella del Verbo in cui sussiste l'umanità. Da questa unione ineffabile scaturisce il valore infinito degli atti di Gesù, dei suoi stati, dei suoi misteri.

Consideriamo questa verità, perché da questa considerazione fatta con umiltà e amore proromperanno naturalmente i sentimenti che devono animarci al cospetto di questo mistero.

I. Cristo è Dio perfetto ed uomo perfetto: ineffabile unione del divino e dell'umano nella vita di nostro Signore. 

Cristo è Dio perfetto ed uomo perfetto.

Quando si presenta a noi nella grotta di Betlemme, nell'officina di Nazareth, sulle vie della Giudea, seduto sulla cattedra delle sinagoghe, inchiodato alla Croce, o ascendente gloriosamente al Cielo, egli si manifesta nel medesimo tempo Dio e uomo.

Egli è Dio perfetto. - Prendendo la nostra natura, il Verbo rimane quello che è: Quod fuit permansit; (Antifona della festa della Circoncisione) Dio, l'Essere eterno, che possiede la pienezza di tutta la vita, tutte le perfezioni, ogni sovranità, potenza e beatitudine.

Ascoltiamo il Verbo incarnato proclamare lui stesso la sua divinità: «Come il Padre ha la vita in sé, così egli ha dato al Figlio d'avere la vita in se stesso, la vita eterna, la vita divina... (Joan. V, 26) Mio Padre ed io siamo una cosa sola... (Ibid. X, 30) Le opere che compie il Padre le compie anche il Figlio... (Ibid. V, 19) Tutto ciò che ha il Padre io pure l'ho, tutto ciò che ho io, lo ha anche mio Padre» (Ibid. XVII, 10). Voi vedete: vi ha identità di perfezioni, uguaglianza di diritti, perché vi è unità di natura.

Il Cristo è il Figlio di Dio e, in conseguenza, Dio stesso. I Farisei riconoscevano che Dio solo può rimettere i peccati; davanti a loro, per mostrare che egli è Dio, Gesù perdona al paralitico e sottolinea con un miracolo la grazia accordata; (Marc. II, 7-12) egli dichiara che, essendo disceso dal cielo, egli è il pane di vita, il pane che dà la vita eterna; (Joan. VI, 51-52) allo stesso modo da solo egli può risalire al cielo col suo proprio potere perché da solo ne era anche disceso (Ibid. III, 13). - Allo stesso modo domanda al Padre che l'umanità da lui assunta venga glorificata con quella gloria eterna da lui posseduta come Verbo, come Dio, prima che il mondo fosse (Ibid. XVII, 5). Egli tratta da pari a pari con Dio perché è il Figlio stesso di Dio. 

Dio perfetto, Cristo è anche uomo perfetto: Et Verbum caro factum est.

Egli ha assunto da noi una natura umana che ha fatta sua unendola fisicamente, sostanzialmente, personalmente con legami ineffabili: Quod non erat assumpsit.

Questo Dio eterno, l'Essere in sé sussistente, nasce nel tempo, da una donna: Factum ex muliebre (Galat. IV, 4). Cristo ha, come noi, una natura umana, completa, integrale nei suoi elementi costitutivi: Debuit per omnia fratribus assimilari (Hebr. II, 17). Come noi, Cristo ha un'anima creata, dotata di facoltà simili alle nostre; il suo corpo è un vero corpo, formato col sangue purissimo della madre sua. Vi sono stati nei primi tempi della Chiesa degli eretici che hanno affermato che il Verbo non aveva assunto che un simulacro di corpo umano, ma la Chiesa li ha condannati. Cristo è autenticamente uno dei nostri, della nostra razza. Egli ha realmente, come narra il Vangelo, sofferto la fame, la sete, la fatica; ha sparso delle lacrime, e le sofferenze hanno tormentato la sua anima e il suo corpo con la medesima realtà con cui tormentano il nostro. Anche dopo la sua risurrezione conserva questa natura umana di cui ha cura di far constatare la realtà ai discepoli increduli: (Luc. XXIV, 39 seq) «Toccate dunque e vedete; uno spirito può essere di carne e di ossa come sono io?». E siccome essi rimanevano scettici ancora, aggiunge: «Avete qualche cosa da mangiare?». E gli offrirono un pezzo di pesce arrostito e del miele di cui prese e mangiò in loro presenza.

Tutto quanto è nostro egli lo ha fatto suo, ad eccezione del peccato: absque peccato (Hebr. IV, 15). Cristo non ha conosciuto né ciò che è principio né ciò che è conseguenza morale del peccato: la concupiscenza, l'errore, l'ignoranza. La sua carne è passibile perché viene ad espiare il peccato col dolore; ma lo stesso peccato non ha alcun dominio su lui. «Chi mi convincerà di peccato?» (Joan. VIII, 46) Questa sfida lanciata ai Giudei è rimasta senza risposta, tanto che per condannare a morte Gesù fu necessario ricorrere a falsi testimoni. Egli è uomo ma di una purezza senza macchia come si conveniva alla dignità di un Uomo ­Dio: Sanctus, innocens, impollutus, segregatus a peccatoribus (Hebr. VII, 26). 

Cristo possiede dunque la natura divina e la natura umana, egli è insieme Dio e uomo, perfetto uomo e perfetto Dio. Aprite il Vangelo: voi vedrete a ciascuna pagina che in tutto ciò che fa, il Verbo incarnato si mostra Dio e uomo, (S. August. Tract. in Joan. XXVIII) ovunque si manifesta, pur seguendo ciascuno la sua natura e le sue proprietà, la divinità e l'umanità. Cristo nasce da una donna, ma vuole che sua madre sia e si mantenga vergine; nella mangiatoia è un povero bambino che ha bisogno di un po' di latte per sostentarsi, ma gli angeli celebrano la sua venuta come quella del Salvatore del mondo; giace sulla paglia di una stalla, ma una stella meravigliosa conduce ai suoi piedi i magi dell'Oriente; come ogni fanciullo giudeo si sottomette alla Circoncisione, ma, nel medesimo tempo, riceve un nome che viene dal cielo ed esprime una missione divina; cresce in età e saggezza, ma a dodici anni meraviglia con le sue stupende risposte gli stessi dottori della Legge; si fa battezzare da Giovanni Battista, come se avesse bisogno di penitenza, ma, in quello stesso momento, il Cielo si apre e il Padre suo attesta che è il suo Figlio diletto; nel deserto prova la fame, ma degli angeli vengono a servirlo; nei suoi viaggi attraverso la Palestina soffre la fatica, la sete, la miseria, ma fa camminare i paralitici, guarisce gli zoppi, e moltiplica i pani per saziare la folla; sul lago di Tiberiade, il sonno chiude le sue palpebre mentre i discepoli lottano contro la tempesta, ma, un momento dopo, svegliato dagli Apostoli spaventati, calma con un solo gesto i flutti furiosi; alla tomba di Lazzaro si commuove, piange; piange delle vere lacrime umane, ma, con una sola parola, risuscita il suo amico morto da quattro giorni; nel giardino del Getsemani dopo una agonia piena di noia, di tristezza e di angoscia, si lascia sorprendere dai suoi nemici, ma gli basta dichiarare che egli è Gesù di Nazareth per farli cadere rovesci; sulla Croce muore come l'ultimo degli uomini, ma tutta la natura proclama col suo sconvolgimento che colui che muore è un Dio.

Così, secondo le belle parole di S. Leone, (Epistola (28) dogmatica ad Flavian) «la maestà si è unita alla bassezza, la potenza alla debolezza, il mortale all'eterno... una natura inviolabile a una natura passibile... Il vero Dio è nato nella natura integrale e perfetta di un vero uomo, tutto completo, con ciò che gli appartiene, tutto completo ancora con ciò che appartiene a noi»: Totus in suis, totus in nostris.

Ovunque, dall'ingresso di Gesù nel mondo, si rivela in lui l'unione dell'umanità e della divinità, unione che niente sottrae delle divine perfezioni e lascia intatta la realtà dell'umana natura: l'Incarnazione è un'unione ineffabile (S. Bernard., Serm. I de Circumcisione).

O eterna saggezza, quanto sono profondi i vostri pensieri e mirabili le opere vostre!

II. Modo di unione: le due nature sono unite in una medesima persona divina. Conseguenza di questa dottrina: valore infinito di tutte le azioni di Gesù; perché è così accetto al Padre. 

Se non che, ciò che compie la meraviglia di questo mistero è la maniera onde è realizzata l'unione delle nature.

La natura divina e la natura umana sono unite in una sola persona che è la persona eterna del Verbo. In noi l'anima e il corpo uniti insieme formano una persona umana. In Cristo, non avviene così. La natura umana, intera, perfetta nella sua essenza, nei suoi elementi costitutivi non esiste tuttavia che per mezzo del Verbo, nella persona divina del Verbo. Solo il Verbo dà alla natura umana la sua realtà di esistenza che è quanto dire la sua «sussistenza» personale. Non vi è dunque in Gesù che una sola persona, quella del Figlio unico di Dio. Tuttavia, voi lo sapete, per quanto sì intimamente unite, le due nature conservano le loro energie particolari e le loro speciali operazioni: tra loro non vi è né mescolanza né confusione: Non commixtionem passus; per quanto inseparabilmente unite nella persona del Verbo, le due nature conservano la loro propria attività.

Finalmente la natura umana è radicata nella divinità. E' proprio un'attività umana, veramente umana, che si manifesta in Gesù, ma essa ha il suo ultimo principio nella divinità. La persona divina del Verbo è la sorgente di tutte le perfezioni di Cristo. Nella Trinità, il Verbo esprime le perfezioni del Padre con un atto infinitamente semplice; assumendo l'umanità il Verbo esprime con essa, in atti molteplici e vari, conformi alla natura umana, le stesse perfezioni: allo stesso modo il raggio di luce passando per il prisma ne esce in un fascio di colori diversi. Le virtù della santa umanità di Gesù: la sua pazienza, la sua dolcezza, la sua bontà, la sua mansuetudine, la sua giustizia, il suo amore, sono altrettante virtù esercitate dalla natura umana ma che hanno la loro radice profonda nella divinità e manifestano nel medesimo tempo ai nostri sguardi terreni le perfezioni del Dio invisibile. Umana nella sua manifestazione esteriore, la vita di Gesù è divina nella sua sorgente e nel suo principio. 

Quale la pratica conseguenza di questa dottrina? Voi la conoscete, ma è utile assai il ritornarci sopra. La conseguenza pratica è che tutte le azioni di Gesù sono le azioni di un Dio. Gli atti della santa umanità costituiscono delle azioni finite, limitate nel tempo e nello spazio, ma il loro valore morale è divino. E perché? Perché ogni azione, sebbene compiuta con tale o tal altra facoltà della natura, è attribuita alla persona. In Cristo, è sempre Dio che agisce, ma talora per mezzo della sua natura divina, talora per mezzo della sua natura, umana. E' verità dunque affermare che un Dio ha lavorato, ha pianto, ha sofferto, è morto, sebbene tutte queste azioni siano state compiute per mezzo della natura umana. Tutte le azioni umane di Gesù Cristo, per quanto piccole siano nella loro fisica realtà, hanno sempre un valore infinito (In termine teologico queste azioni si chiamano teandriche, doppia parola greca che significa: umano-divine).

Ed è perciò che tutta la vita di Cristo è cosi accetta a suo Padre. L'eterno Padre trova in Gesù, nella sua persona e nei suoi atti, nei suoi stati più umilianti come nei più sfolgoranti misteri, tutte le sue compiacenze, perché egli vi vede sempre la persona del suo unico Figlio. L'eterno Padre, guardando Cristo Gesù, lo vede come mai lo vedrà alcuna creatura. Se mi si consente di parlare cosi, egli è il solo che possa apprezzare il valore di ciò che fa il Figlio suo. Come si esprimeva lo stesso Gesù, «nessuno conosce il Figlio all'infuori del Padre» (Matth. XI, 27; Luc. X, 22). Noi potremo bene elevare la nostra anima e approfondire i misteri e gli stati di Gesù, ma non arriveremo mai ad apprezzarli come si meritano. Non vi ha che un Dio che possa conoscere e riconoscere degnamente ciò che un Dio fa. Ma agli occhi del Padre, le azioni più piccole dell'umanità di Gesù, i minimi movimenti del suo Sacro Cuore erano una sorgente di rapimento e di gioia.

L'altra ragione per cui l'eterno Padre contempla l'anima di Cristo con compiacenza è perché essa è ripiena di ogni grazia. Dopo avere proclamata la divinità del Verbo e la realtà della sua Incarnazione, S. Giovanni aggiunge: «E noi l'abbiamo visto pieno di grazia»: Et vidimus eum plenum gratiae. Qual è questa pienezza di grazia che S. Giovanni ammirava in Gesù e di cui egli dice «che da essa noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia»? In Cristo vi è intanto, come sapete, la grazia di unione: gratia unionis, in virtù della quale una natura umana è unita sostanzialmente a una persona divina. Per questa grazia si compie l'unione che costituisce l'Incarnazione. E' una grazia unica nel suo genere e che non è stata accordata che a Gesù. Cristo. Inoltre l'anima di Gesù creata come la nostra, è stata arricchita colla pienezza della grazia santificante. Per la grazia di unione l'umanità in Gesù è divenuta l'umanità di un Dio; per la grazia santificante l'anima di Gesù era resa degna di essere e di agire come conveniva ad un'anima unita a Dio con una unione personale. Questa grazia santificante è stata data a Gesù in tutta la sua pienezza. A noi viene accordata in una misura più o meno grande secondo i disegni di Dio e la nostra cooperazione; a Gesù, all'incontro, è stata conferita nella sua pienezza sia per la sua qualità personale di Figlio di Dio, sia per il suo titolo di capo del corpo mistico al quale egli la deve distribuire: Secundum mensuram donationis Christi (Eph. IV, 7).

Finalmente, santa è l'umanità di Gesù perché essa possiede in grado incomparabile le virtù, quelle almeno che sono compatibili con la dignità di Figlio unico di Dio; poiché essa è adorna in una misura unica (Joan. III, 34) dei doni dello Spirito Santo.

Niente manca dunque all'umanità di Gesù perché essa sia degna del Verbo al quale è unita: in essa vi è proprio la pienezza di ogni grazia: Et vidimus eum plenum gratiae; in Gesù si trovano proprio «i tesori della sapienza e della scienza»; (Col. II, 3) egli è in tutto «il primo perché è piaciuto a Dio che fosse in lui tutta la sua pienezza» (Ibid. I, 18-19) e vi rimanesse per sempre. Per tal modo, dice S. Paolo, che, in questo, è l'eco di S. Giovanni, «nel Cristo noi abbiamo tutto con pienezza, perché egli è il nostro capo». In ipso inhabitat OMNIS PLENITUDO divinitatis corporaliter: et estis in illo REPLETI, qui est CAPUT omnis principatus et potestatis (Ibid II, 9-10).

III. Nostri doveri verso il Verbo incarnato: riconoscerlo come Dio con la fede, l'adorazione, l'ubbidienza. 

Quale deve essere l'atteggiamento dell'anima nostra al cospetto di questo mistero fondamentale dell'Uomo-Dio? La prima disposizione che occorre avere è la fede. L'abbiamo già detto, ma tratta si di verità capitale e bisogna perciò ritornarci. Al principio del suo Vangelo, dopo aver cantata la gloria del Verbo divino, S. Giovanni fa notare che il Verbo è venuto in questo mondo e che il mondo che egli aveva creato e che era sua proprietà, non lo volle ricevere. Ma, aggiunge egli, tutti coloro che credono nel suo nome lo ricevono: Quotquot autem receperunt eum... qui credunt in nomine ejus... Noi riceviamo il Verbo Incarnato per mezzo della fede, accettando per essa la divinità di Gesù Cristo: «Voi siete il Cristo, il Figlio del Dio-vivente» (Matth. XVI, 16; Joan. XI, 27). E' questa la disposizione che reclama da noi l'eterno Padre. «Il comando di Dio, dice lo stesso S. Giovanni, è che noi crediamo nel suo Figlio Gesù Cristo»: Et hoc est MANDATUM ejus: ut credamus in nomine Filii ejus Jesu Christi (Joan. III, 23). Egli stesso lo ha detto: «Ecco il mio Figlio diletto, ascoltatelo» (Matth. XVII, 5; Marc. IX, 6; Luc. IX, 35). Questa parola che è risuonata sul Tabor, quando lo splendore della divinità investiva dei suoi raggi la santa umanità di Gesù, non è che l'eco, nel mondo creato, della parola che l'eterno Padre pronunzia nel santuario dei cieli, in splendoribus sanctorum: (Ps. CIX, 3) «Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato».

Così noi siamo molto accetti al nostro Padre celeste quando, accogliendo la sua testimonianza, noi professiamo che Gesù è suo Figlio, coeterno a lui e partecipante con lui alla gloria divina: Tu solus altissimus, Jesu Christe... in gloria Dei Patris.

E' la parola di S. Paolo. Il mistero degli abbassamenti del Verbo fatto carne getta l'Apostolo in una tale ammirazione che egli non trova parole sufficienti per proclamare la gloria che, secondo i pensieri stessi di Dio, ne deve derivare a Gesù. Ascoltate che cosa dice: «Il Cristo era Dio, tuttavia egli non ha conservato avidamente la sua eguaglianza con Dio, egli ha annichilito se stesso mettendosi nella condizione di una natura creata, rendendosi simile agli uomini e mostrando in tutte le cose la sua umanità; egli si è abbassato facendosi ubbidiente fino alla morte, fino alla morte di croce. Per questo, propter quod, Dio lo ha sovranamente innalzato, dandogli un nome al di sopra di ogni nome perché ogni ginocchio si piegasse nei cieli, sulla terra, nell'inferno e perché ogni lingua riconoscesse che nostro Signor Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre». Et omnis lingua confiteatur quia Dominus Jesus Christus in gloria est Dei Patris (Philip. II, 6-11).

E' nostro dovere unirci sovente con lo spirito e col cuore a questa volontà dell'eterno Padre di glorificare suo Figlio: Clarificavi et iterum clarificabo (Joan. XII, 28). Non dovremmo mai aprire il Vangelo o disporci a celebrare i misteri di Gesù senza entrare immediatamente nelle vedute di Dio stesso proclamando, con un atto di fede intensa, che il Cristo che noi andiamo a contemplare, pregare e a far nostro è veramente Dio come il Padre e come lo Spirito Santo.

Questa disposizione dell'anima è straordinariamente feconda perché ci innalza al livello divino e ci rende accetti al Padre: Pater amat vos... quia credidistis quia ego a Deo exivi (Ibid. XVI, 27). «La fede, ben dice S. Leone, la fede che giustifica gli empi agli occhi di Dio e che da peccatori li cambia in Santi è quella che crede che nel medesimo ed unico Signor nostro Gesù, si trovano veramente la divinità e l'umanità. La divinità per la quale, prima dei secoli tutti, egli è eguale al Padre, della medesima eterna natura; l'umanità, per la quale negli ultimi tempi si è unito a noi assumendo la nostra condizione di creatura» (S. Leo, Sermo IV de Epiph.).

Tale atto di fede nella divinità di Gesù deve essere la sorgente della nostra adorazione. Spesso, nel Vangelo, noi vediamo l'atto di fede accompagnato da un movimento di adorazione. E' il gesto dei magi (Matth. II, 11), è il gesto di Pietro dopo il prodigio della pesca miracolosa, (Luc. V, 8) dei discepoli che videro Gesù camminare sulle acque, (Matth. XIV, 33) del cieco-nato dopo la sua guarigione: Credo, Domine, et procidens adoravit eum (Joan. IX, 38). Per questo atto di adorazione l'anima si abbandona tutta intera al Verbo divino; perciò, quando nostro Signore si trova nel nostro cuore, specialmente dopo la santa Comunione, noi dobbiamo, secondo il consiglio di S. Francesco di Sales, («Il giorno della vostra comunione guardate di avere la più grande devozione possibile, sospirando verso colui che è in voi, guardatelo continuamente col vostro occhio interiore, mentre si trova nel vostro cuore come sul proprio trono e portategli davanti, l'uno dopo l'altro, i vostri sensi, le vostre facoltà per ascoltare i suoi comandi e promettetegli fedeltà». Avvisi e risoluzioni per la S. Comunione. Opere di S. Francesco di Sales) mettere tutte le nostre facoltà ai piedi suoi perché lo ascoltino, sposino la sua causa, condividano i suoi sentimenti, lavorino alla sua gloria.

In questo modo si imita la santa umanità di Gesù: essa apparteneva cosi strettamente al Verbo, gli si era abbandonata in un modo cosi assoluto da non aver più la propria personalità: è questo uno degli aspetti essenziali del mistero dell'Incarnazione.

Con le dovute proporzioni, lo stesso deve verificarsi di noi, essendo Gesù modello nostro in tutte le cose. La sua umanità operava sempre nella sottomissione al Verbo nel quale essa sussisteva e da cui riceveva l'esistenza; anche in noi non vi devono mai essere dei movimenti che non vengano da Dio, dei desideri che non siano secondo il suo beneplacito, delle azioni che non siano indirizzate ad essere lo strumento della sua gloria. Un'anima che vive in tale dipendenza di amore, di volontà e di azione con Dio può dire con tutta verità quanto diceva la stessa santa umanità: «E' Dio che mi dirige»: Dominus regit me. E il sacro scrittore aggiunge: Et nihil mihi decrit: (Ps. XXII, 1) «perciò niente mi mancherà». Difatti, essendo quest'anima completamente abbandonata al Verbo, questi dice a suo Padre: «Quest'anima è mia, essa è dunque anche vostra, o Padre». Mea omnia tua sunt, Il Verbo consegna quest'anima al Padre, perché il Padre faccia scendere in essa, con le sue compiacenze, i suoi doni migliori. 

IV. Riconoscere con l'adorazione e una assoluta confidenza la realtà della sua umanità unita al Verbo 

Cristo è Dio e uomo. L'anima fedele non si contenta di proclamare la divinità di Gesù, ma vuole onorare altresì la sua umanità, per cui, la nostra pietà non sarà perfetta ed intera se, pur confessando la divinità di Cristo, ci dimenticheremo della sua umanità. Vi sono delle anime le quali credono di comportarsi meglio nella loro vita spirituale non occupandosi dell'umanità di Cristo e non contemplando che la sua divinità. Fu questo per alcun tempo l'errore di S. Teresa, ma la grande contemplatrice riconobbe più tardi l'errore. Con quali amari accenti l'ha deplorato! Con quale vivacità ha messo le figlie sue e, con loro, tutte le anime, in guardia contro questa opinione che essa proclama «erronea», e di cui non può a meno di ricordarsi «senza provare una stretta dolorosa» perché «si era messa su una via detestabile e le pareva di essersi resa colpevole verso il Signore di un nero tradimento!». A dir vero, era ignoranza.

Secondo la santa, tale illusione ha per causa «una certa mancanza di umiltà cosi coperta e nascosta che non è possibile vederla». Perché noi dobbiamo considerarci «ricchissimi» di poter rimanere presso l'umanità di Cristo nei suoi misteri. «E' un leggero difetto di umiltà non contentarsi di un oggetto così eccellente come l'umanità di Cristo... questo leggero difetto di fede che non sembra niente, nuoce tuttavia molto al progresso della contemplazione».

Il secondo inconveniente dell'errore rilevato dalla santa è di lasciare l'anima senza appoggio. «Noi non siamo degli angeli, essa dice; noi abbiamo un corpo. In mezzo agli affari, alle persecuzioni, alle prove, nel tempo dell'aridità, Gesù Cristo è un amico eccellente. Noi lo vediamo uomo come noi, lo contempliamo nell'infermità, nella sofferenza... Essendo uomini, è molto vantaggioso per noi, finché siamo in questa vita, considerare Dio fatto uomo». Non è forse, d'altronde, legge stessa della nostra natura di andare all'invisibile attraverso alle cose visibili? Ora l'Incarnazione è la più divina applicazione di questa legge psicologica.

La Sposa del Cantico dei Cantici diceva: «Io mi sono seduta all'ombra di colui che era l'oggetto dei miei desideri»: Sub umbra illius quem desideraveram sedi. Questa umbra, è la santa umanità che ci permette di contemplare la divinità nel suo esteriore sensibile.

Così, conclude la santa, «Dio moltissimo si compiace nel vedere un'anima che pone come intermediario, umilmente, tra sé e lui, il suo divin Figlio» (Vita scritta da se stessa, cap. XXII).

Quale ne è l'intima ragione? Che l'Incarnazione è un mistero divino, il capolavoro della sapienza eterna e dell'amore infinito. Perché dunque non entrare nelle vedute e nei disegni divini? Perché recalcitrare a sottomettere la nostra sapienza così limitata alla Sapienza divina? Le risorse divine sono adunque così limitate da doverle correggere con dei calcoli umani? Se Dio ha voluto compiere la nostra salvezza col mezzo di un'umanità unita al suo Verbo, perché non accetteremo noi questo mezzo? La sapienza vi risplende non meno dell'amore.

Leggendo dunque il Vangelo, celebrando i misteri di Gesù, guardiamoci bene dal timore di contemplare l'uomo nel Cristo, essendo questa umanità l'umanità di un Dio. Quest'uomo che noi vediamo operare e vivere in mezzo agli uomini per avvincerli con segni visibili dell'amore, è Dio, è il nostro Dio. Non temiamo sopratutto di rendere a questa stessa umanità tutti gli omaggi da lei meritati. ­ Innanzi tutto la nostra adorazione. - E' vero che questa umanità è creata come la nostra, ma noi non l'adoriamo già per se stessa, ma in se stessa, per la sua unione col Figlio di Dio. La nostra adorazione va all'umanità ma ha il suo termine nella persona divina alla quale essa è unita sostanzialmente.

In secondo luogo, una confidenza assoluta. Della umanità di Cristo, Dio ha voluto far lo strumento della grazia. Per la sua mediazione scende in noi la grazia. Non del Verbo, che è nel seno del Padre, ma veramente del Verbo incarnato S. Giovanni ha detto «che era pieno di grazia e che da questa pienezza noi tutti dobbiamo ricevere».

Nella sua vita terrena, nostro Signore, essendo Dio, avrebbe potuto operare tutti i suoi miracoli e dare la grazia agli uomini con un semplice atto della sua volontà divina. Ogni volta che venivano presentati a Gesù dei malati perché li guarisse, dei morti da risuscitare, egli avrebbe potuto con un solo atto interiore della sua volontà eterna, operare il miracolo richiesto. Ma non ha fatto così. Leggete il Vangelo e vedrete che ha voluto toccare con la sua mano gli occhi dei ciechi, gli orecchi dei sordi, mettere la sua saliva sulla lingua dei muti, toccare la bara del figlio della vedova di Naim, prender per mano la figlia di Giairo, e dare agli Apostoli lo Spirito Santo soffiando su essi. Cristo faceva dunque dei miracoli e dava la grazia col contatto della sua sacra umanità: l'umanità serviva insomma di strumento al Verbo. E questa legge mirabile e commovente si verifica sempre in tutti i misteri di Cristo. Ora questo ordine voluto da Dio stesso, sussiste sempre perché l'unione delle nature in Cristo resta indissolubile. Quando dunque noi percorriamo le pagine del Vangelo o seguiamo la Chiesa nella sua liturgia, quando con un atto di fede ci uniamo alla santa umanità di Gesù, quando sopratutto, riceviamo il suo corpo nell'Eucaristia, la santa umanità di Cristo, inseparabile dal Verbo divino, serve sempre di strumento di grazia per le anime nostre.

«La cosa è per me di assoluta evidenza, scrive S. Teresa: per piacere a Dio, per ricevere da lui grandi grazie, occorre, e tale è la sua volontà, che esse passino per le mani di quella sacra umanità nella quale egli stesso ha dichiarato di metter tutte le sue compiacenze. Io ne ho fatta l'esperienza un numero infinito di volte e lo stesso Signore me lo ha detto. Io ho riconosciuto chiaramente che questa è la porta per la quale noi dobbiamo entrare se vogliamo che la sovrana maestà ci discopra gli alti segreti... per questa via si cammina sicuramente» (L. c).

E se vi riflettete bene constaterete che tutta l'economia della vita soprannaturale è basata su questa verità. La Chiesa, i sacramenti, il divino sacrificio, la predicazione sono altrettanti mezzi sensibili coi quali Dio ci conduce a lui. E' come un'estensione dell'Incarnazione (Vedere lo sviluppo di questo concetto nella conferenza: La Chiesa corpo mistico di Cristo, § II, nella nostra opera precedente: Cristo vita dell'anima). Si vede dunque quanto sia utile e importante rimanere uniti alla santa umanità di Gesù: in essa, dice S. Paolo, abita là pienezza stessa della divinità e per la mediazione di essa noi riceviamo ogni grazia dal Verbo. L'umanità di Gesù è il mezzo divinamente stabilito per trasmettere la grazia alle anime.

Essa è altresì il mezzo per le anime di pervenire alla divinità. è una verità non meno importante e che non dobbiamo dimenticare. Noi non dobbiamo fermarci alla santa umanità di Gesù come a termine finale. Voi potreste dirmi difatti: «Per me la devozione consiste nel darmi a Gesù Cristo, nell'abbandonarmi a lui». E' questa cosa buona ed eccellente, niente potendo esservi di meglio che darsi a Cristo. Ma che significa mai darsi a nostro Signore? Unire la nostra volontà alla sua. Ora la volontà di Gesù è di condurci a suo Padre. In ciò è tutta l'opera sua, il Padre è il termine. «Io sono la via» diceva lo stesso Cristo parlando della sua umanità. Egli è l'unica via, è vero, ma non è che una via, il termine supremo a cui questa via conduce è l'eterno Padre: Nemo venir AD PATREM nisi per me (Joan. XIV, 6). L'umanità ci consegna al Verbo, il Verbo al Padre.

E' quanto S. Paolo diceva ai cristiani del suo tempo: Omnia vestra sunt, vos autem Christi, Christus autem Dei (I Cor 3, 22-23). Con queste semplici parole l'Apostolo significava i vari gradi dell' opera divina sulla terra: «Tutto è per voi, voi siete di Cristo e Cristo di Dio».

Per mezzo dell'umanità di Gesù noi apparteniamo al Verbo, al Figlio; per mezzo del Figlio noi andiamo al Padre. Cristo ci riconduce dunque in sinu Patris (I Joan. I, 18). Contemplata dal nostro punto di vista è questa l'intima ragione d'essere dell'ineffabile mistero dell'Uomo-Dio. 

S. Giovanni ci narra che al principio della sua vita pubblica nostro Signore, passando per la Samaria, giunse a una città chiamata Sichar, presso il pozzo di Giacobbe. Tra i particolari della scena, notati con cura dall'evangelista, ve ne è uno che commuove particolarmente il nostro cuore. Jesus ergo fatigatus ex itinere, sedebat sic supra fontem: (Ibid. IV, 6)7 «Gesù dunque affaticato dal viaggio sedeva sul parapetto del pozzo». Quale commovente rivelazione della reale umanità di Gesù!

Giova leggere il commento mirabile di questi particolari, fatto da S. Agostino, (Tract. in Joan. XV) con quel contrasto di idee e di termini di cui possiede il segreto, specialmente quando vuole mettere in rilievo l'unione e il contrasto del divino e dell'umano in Gesù. «Cede alla fatica quegli stesso che ristora le forze di coloro che sono stanchi, colui la cui assenza ci abbatte e la cui presenza ci fortifica»: Fatigatur per quem fatigati recreantur; quo deserente fatigamur, quo praesente firmamur. «E' per voi che Gesù è affaticato dalla via. Noi troviamo Gesù pieno di forza e di debolezza. Perché pieno di forza? Perché è il Verbo eterno e tutte le cose sono state create dalla sua saggezza e dalla sua potenza. Perché pieno di debolezza? Perché questo Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi. La forza divina di Gesù Cristo vi ha creati, la sua venuta nella debolezza della sua umanità vi ha ricomprati»: Fortitudo Christi te creavit; infirmitas Christi te recreavit.

E il santo conclude: «Gesù è debole nella sua umanità, ma voi guardatevi bene dal rimanere nella vostra debolezza, ma venite piuttosto ad attingere la forza divina di Colui che, essendo per natura l'Onnipotente, ha voluto rendersi debole per nostro amore»: Infirmus in carne Jesus; sed noli tu infirmari; in infirmitate illius tu fortis esto!