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12/Sulla cima del Tabor

La vita di Gesù Cristo sulla terra ha, pur nei suoi particolari, una tale portata che non possiamo mai esaurirne la profondità; una sola parola del Verbo Incarnato, di colui cioè che è ognora In sinu Patris, (Joan. I. 18) è una rivelazione sì grande che essa può bastare, come una sorgente sempre viva d'acqua salutare, a render feconda tutta una vita spirituale. Noi lo vediamo nella vita dei santi: una parola di lui è sovente bastata per convertire totalmente l'anima a Dio. Le sue parole vengono dal cielo; da ciò la loro fecondità. Lo stesso dobbiamo dire delle sue minime azioni; esse sono per noi dei modelli, delle luci, delle sorgenti di grazie.

Ho procurato, nella precedente conferenza, di mostrarvi alcuni aspetti della sua vita pubblica, quanto bastasse a farvi intravedere ciò che vi è di ineffabilmente divino e di inesprimibilmente umano in questo periodo di tre anni. Ho dovuto lasciare da parte con mio vivo dispiacere molte narrazioni evangeliche e fare silenzio su molte scene raccontate dai sacri scrittori.

Vi è una pagina tuttavia, una pagina singolare, un mistero cosi pieno di grandezza e al tempo stesso così fecondo per le anime nostre che merita che gli consacriamo un'intera conferenza: la Trasfigurazione (La Chiesa ci fa leggere due volte il racconto evangelico della Trasfigurazione: alla seconda Domenica di Quaresima per animarci a sopportare le mortificazioni con la prospettiva lontana della gloria che Cristo ci promette con la sua Trasfigurazione; una seconda volta, il 6 agosto, solennità che essa consacra unicamente ad onorare la manifestazione dello splendore divino in Gesù sul monte Tabor).

Vi ho spesso ripetuto che niente deve esserci più caro del domma della divinità di Gesù: anzitutto perché niente è a lui più accetto; poi perché questo dogma è la base e il fondamento, il centro e il coronamento di tutta la nostra vita interiore. Ora la Trasfigurazione è uno di quegli episodi in cui più splendidamente si manifestano agli occhi degli uomini gli splendori della divinità.

Contempliamolo dunque con fede, ma anche con amore; più viva sarà la fede, più grande sarà l'amore con cui ci avvicineremo a Gesù in questo mistero; più estesa anche e più profonda sarà la nostra capacità di essere interiormente inondati della sua luce e della sua grazia.

Gesù Cristo, Verbo eterno, Maestro divino, voi che siete lo splendore del Padre e l'immagine della sua sostanza, l'avete detto voi stesso: «Se qualcuno mi ama io mi manifesterò a lui», fate che noi vi amiamo fervidamente onde possiamo ricevere da voi una luce più intensa sulla vostra divinità; poiché qui si trova siete pur sempre voi che lo dite il segreto della nostra vita eterna: «Conoscere che nostro Padre celeste è il solo vero Dio e che voi siete il suo Cristo» mandato quaggiù per essere il nostro Re e il Pontefice della nostra salute. Illuminate l'anima nostra con un raggio di quei divini splendori che rifulsero sul Tabor, onde la fede nostra nella vostra divinità, la speranza nostra nei vostri meriti e l'amor nostro per la vostra persona adorabile ne ricevano vigore e incremento.

I. Il racconto evangelico della Trasfigurazione.

Seguiamo innanzi tutto il racconto evangelico, per applicar ci poi in seguito a penetrarne il senso.

E' l'ultimo anno della vita pubblica di Gesù. Fino a quel tempo Gesù non aveva fatto ai suoi Apostoli che rarissime allusioni sulla sua futura Passione; ma, dice S. Matteo, «Gesù cominciava fin da allora a far sapere ai suoi discepoli che era necessario che egli andasse a Gerusalemme, che egli avrebbe dovuto molto soffrire da parte dei suoi nemici, che sarebbe stato messo a morte e risuscitato il terzo giorno». E aggiunse: «Molti di quelli che sono qui non vedranno la morte prima di aver contemplato il Figlio dell'uomo apparire nello splendore del suo regno» (Matth. XVI, 21, 28). Pochi giorni dopo questa predizione, nostro Signore prende con sé alcuni discepoli. Sono i suoi tre Apostoli prediletti: Pietro, cui pochi giorni prima aveva promesso di farne il fondamento della Chiesa (Ibid. 18); Giacomo, che doveva essere il primo martire del Collegio apostolico; Giovanni, il discepolo dell'amore. Altra volta Gesù li aveva scelti perché fossero testimoni della risurrezione della figlia di Giairo; ora li conduce sopra un alto monte perché siano testimoni di una più viva manifestazione della sua divinità. Voi sapete che la tradizione vede in questo «alto monte» il Tabor. S'innalza esso ad alcune leghe ad est di Nazareth, isolato, alto circa seicento metri, coperto d'una ricca vegetazione e dalla cui cima lo sguardo si stende in tutte le direzioni.

Su questa cima, lontana dai rumori della terra, (Ibid. XVII, 1; Marc. IX, 1) Gesù si porta con i suoi discepoli. Secondo la sua abitudine, si raccoglie in preghiera. S. Luca ci rivela appunto questo particolare (Luc. IX, 29) «egli si trasfigurò mentre pregava». La sua faccia rifulge come il sole, le sue vesti diventano bianche come la neve e apparisce tutto circondato da una atmosfera divina.

Quando Gesù aveva dato principio alla sua preghiera, gli Apostoli si erano addormentati; ma ecco che lo splendore della luce li sveglia, e vedono allora Gesù splendente e, ai suoi fianchi, Mosè ed Elia che conversano con lui E Pietro si sente colmo di tanta gioia alla vista della gloria del suo Maestro, che fuori di sé, «più non sapendo quel che diceva», esclama (Matth. XVII, 24; Marc. IX, 4-5; Luc. IX, 33): «Maestro, noi stiamo bene qui». O Signore, è buono per noi star qui; facciamola finita con le lotte coi Farisei, con le fatiche e i viaggi, con le umiliazioni e le insidie, restiamo qui, noi vi costruiremo tre tende, una per Mosè, una per Elia e noi rimarremo con te. Gli Apostoli immaginavano già di essere in cielo, tanto sfolgorante era la gloria di Gesù e tanto la vista di lui saziava il loro cuore.

Pietro parlava ancora quando una nube luminosa li coprì e da questa nube uscì una voce che disse: «Questo è il mio Figliuolo diletto nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo». Subito, colpiti di timore e di riverenza, i discepoli si gettarono bocconi per terra in adorazione davanti a Dio. Ma Gesù un momento dopo li toccò e disse: «Levatevi e non abbiate paura». E alzati gli occhi, «non videro nessuno, tranne Gesù» (Matth. XVII, 5-8; Marc. IX, 6-7; Luc. IX, 34-36). Videro dunque Gesù come l'avevano veduto alcuni momenti prima, quando con loro saliva sul monte, il medesimo Gesù che erano soliti vedere, il figlio dell'operaio di Nazareth, quel Gesù che fra non molto sarebbe morto sulla croce. 

II. Significato di questo mistero per gli Apostoli che ne furono testimoni: Cristo vuole con la manifestazione della sua divinità premunirli contro “lo scandalo” della sua Passione. 

Questo è il mistero narrato nel santo Vangelo. Vediamone ora il significato; perché tutto nella vita di Gesù, Verbo Incarnato, è pieno di significato. Cristo, se così posso esprimermi, è il grande sacramento della Legge nuova. Che cosa è un sacramento? Nel senso largo della parola è un segno sensibile della grazia invisibile; si può dunque dire che Cristo è il grande sacramento di tutte le grazie largite da Dio all'umanità. Come dice l'apostolo S. Giovanni, «Cristo è apparso in mezzo a noi come Figlio unigenito di Dio pieno di grazia e di verità»: e subito aggiunge: «E da questa pienezza noi tutti abbiamo ricevuto» (Joan. l, 14, 16). Gesù Cristo ci dona tutte le grazie come Uomo-Dio perché egli ce le ha meritate e perché l'eterno Padre l'ha costituito pontefice unico e mediatore supremo, e tutte queste grazie egli ce le largisce nei suoi misteri.

L'ho già detto: i misteri di nostro Signore devono essere il nostro argomento di contemplazione, di adorazione e di culto; devono essere anche come dei sacramenti che producano in noi, nella proporzione della nostra fede e del nostro amore, la grazia ad essi connessa.

E questo è vero di ciascuno degli stati di Gesù e di ciascuna delle sue azioni. Perché se Cristo è sempre il Figlio di Dio; se, In tutto quanto egli dice e fa glorifica anzitutto il Padre suo, pure egli non ci separa mai dal suo pensiero, e a ciascuno dei suoi misteri unisce una grazia che ci deve aiutare a riprodurre in noi i suoi divini lineamenti e diventare simili a lui.

Ecco perché Gesù Cristo vuole che conosciamo i suoi misteri, che li approfondiamo, con riverenza senza dubbio, ma anche con confidenza e che sopratutto nella nostra qualità di membri del suo corpo mistico, viviamo soprannaturalmente della grazia interiore che egli ha voluto annettere ad essi vivendoli prima di noi e per noi.

Questo ci dice il grande S. Leone parlando della Trasfigurazione: «Il racconto evangelico che abbiamo ascoltato con gli orecchi del corpo e che ha toccato il nostro cuore, c'invita a indagare il senso di questo grande mistero» (Una parte di questo bel sermone forma le lezioni del secondo Notturno del Mattutino della festa). E' una grazia preziosa poter penetrare il significato dei misteri di Gesù perché è «in essi la vita eterna» (Joan. XVII, 3). Nostro Signore diceva egli stesso ai suoi discepoli che «egli non conferiva questa grazia d'intelligenza spirituale che a quelli che aderivano a lui» (Luc. VIII, 10; cf. Matth. XIII, 11; Marc. IV, 11). Questa grazia è così importante per le anime nostre che la Chiesa, guidata in questo dallo Spirito Santo, ne fa oggetto della sua domanda al postcommunio della festa: «Ascoltate la nostra preghiera, o Dio onnipotente, fate che le nostre anime purificate abbiano una intelligenza feconda dei santissimi misteri della Trasfigurazione del Figlio vostro che celebriamo con ufficio solenne...» (Per dirlo di passata, è da osservare che questa domanda forma altresì l'oggetto del Postcommunio dell'Epifania, che è un'altra manifestazione della divinità di Gesù; - la medesima idea è espressa altresì nel Postcommunio della messa dell'Ascensione). 

Studiamo dunque il significato di questo mistero. Anzitutto per gli Apostoli, perché è alla loro presenza che avviene il mistero.

Perché mai Cristo si è trasfigurato ai loro occhi? S. Leone ci dice ancora con molta chiarezza: «Lo scopo principale di questa trasfigurazione era di togliere dal cuore dei discepoli lo scandalo della croce: le umiliazioni di una passione volontariamente accettata non avrebbero più turbata la loro fede dopochè la trascendenza della dignità nascosta del Figlio di Dio fosse stata loro rivelata» (Ibid.). Gli Apostoli che vivevano in intimi rapporti col divino Maestro e che d'altronde erano tuttora imbevuti dei pregiudizi del loro popolo riferenti si ai destini di un Messia glorioso, non potevano ammettere che Cristo potesse soffrire. Guardate S. Pietro, il principe del Collegio apostolico. Non molto tempo prima egli aveva proclamato, al cospetto e nel nome di tutti, la divinità di Gesù: «Voi siete il Cristo, Figlio di Dio vivo» (Matth. XVI, 16). L'amore che portava a nostro Signore e le concezioni ancora terrestri che aveva del suo regno gli facevano respingere l'idea della morte del suo Maestro. Così, quando Gesù Cristo, alcuni giorni prima della Trasfigurazione, aveva parlato apertamente ai suoi discepoli della sua prossima Passione, Pietro si era impressionato, e prendendo in disparte Gesù aveva protestato così: «Dio non voglia, Signore, questo non vi accadrà!». Se non che nostro Signore rimprovera subito l'Apostolo: «Allontanati da me, o Satana, cioè a dire, avversario, che vuoi mettere degli ostacoli alla volontà di colui che mi manda; tu non hai il senso delle cose di Dio, ma pensieri unicamente umani» (Ibid. 22-23). Prevedeva dunque nostro Signore che i suoi Apostoli non avrebbero sostenuto i suoi abbassamenti e che la croce sarebbe stata per loro un'occasione di caduta. Questi tre Apostoli che sceglieva perché assistessero alla Trasfigurazione, doveva fra non molto prenderli ancora, di preferenza agli altri, perché fossero i testimoni della sua debolezza, delle sue angosce e delle sue immense tristezze nella sua agonia nel giardino degli Ulivi. Egli vuole così premunirli contro lo scandalo che cagionerà alla loro fede il suo stato di umiliazione; egli vuole riaffermare questa fede con la sua Trasfigurazione. E come?

Anzitutto con il mistero stesso.

Nella sua vita mortale, Gesù Cristo «aveva l'aspetto di un uomo come tutti gli altri» (Philip. II, 7). E ciò è tanto vero che la maggior parte di quelli che lo vedono lo scambiano per un uomo ordinario; perfino i suoi parenti, [*Sui, cioè a dire quelli che, secondo l'espressione del tempo, il sacro testo chiama fratres Domini, (Cf. Joan. VII, 3) i suoi cugini], ascoltando la sua dottrina così singolare, l'accusano di pazzia (Marc. III, 21); e quelli che l'avevano conosciuto a Nazareth nell'officina di Giuseppe, si stupiscono e si domandano donde gli venga quella sapienza: «Non è questi il figlio del fabbro?» (Matth. XIII, 55)

Vi era indubbiamente in Gesù una virtù divina del tutto interiore che si manifestava con dei prodigi (Luc. VI, 19); vi era in lui come un profumo di divinità che esalava da lui attirando le folle; tanto che noi leggiamo nel Vangelo che accadeva qualche volta che i Giudei, quantunque grossolani e carnali, restassero tre giorni senza mangiare pur di poterlo seguire (Matth. XV, 32). Se non che in lui, esteriormente la divinità era come velata dietro l'infermità d'una carne mortale sottoposta alle vane e comuni condizioni della vita umana debole e passibile: sottoposta alla fame, alla sete, alla fatica, al sonno, alle lotte, alla fuga. E questo era il Cristo di ogni giorno, il Cristo della cui umile esistenza gli Apostoli erano quotidianamente testimoni. Ed ecco che sul monte essi lo vedono trasfigurato: la divinità sfolgora, onnipossente, attraverso il velo dell'umanità; la faccia di Gesù risplende qual sole, «le sue vesti si illuminano di una luce tale, dice S. Marco, che nessun lavandaio della terra saprebbe farle tanto candide». (Marc. IX, 2) Gli Apostoli comprendono con questo miracolo che Gesù è veramente Dio e così la maestà della divinità li compenetra di sé e la gloria eterna del loro Maestro è ad essi interamente manifestata. Ed ecco apparire Mosè ed Elia ai fianchi di Gesù per conversare con lui e adorarlo.

Voi lo sapete: per gli Apostoli, come per i Giudei fedeli, Mosè ed Elia riassumevano tutto; Mosè era il loro legislatore, mentre i profeti sono qui rappresentati da Elia, uno dei più grandi di loro. La Legge e i profeti venivano ad attestare, con questi personaggi, che Cristo è il Messia figurato e predetto.

I Farisei possono ormai combattere Gesù, i discepoli possono abbandonarlo; la presenza di Mosè ed Elia dimostra a Pietro e ai suoi compagni che Gesù rispetta la Legge ed è d'accordo con i profeti e che egli è veramente l'Inviato di Dio, colui che deve venire. 

Finalmente per porre il colmo a tutte queste testimonianze, per porre il sigillo all'evidenza della divinità di Gesù si fa intendere anche la voce del Padre. Dio Padre proclama che Gesù è suo Figlio e Dio come lui. Tutto concorre così a consolidare la fede degli Apostoli in colui che Pietro aveva riconosciuto come il Cristo, Figlio di Dio vivente. 

III. Triplice grazia contenuta in questo mistero per noi: riafferma la nostra fede; contrassegna d'un'impronta speciale la nostra soprannaturale adozione; ci rende degni di prender parte un giorno alla gloria eterna di Cristo. 

I discepoli di Gesù non penetrarono forse in quel momento tutta la grandezza di quello spettacolo né tutta la profondità del mistero di cui erano stati i testimoni privilegiati. Bastava per allora che fossero premuniti contro lo scandalo della croce; per questo il Cristo «proibì di parlare per allora di quella visione» (Matth. XVII, 9; Marc. IX, 8). - Più tardi, dopo la risurrezione, quando lo Spirito Santo, il giorno di Pentecoste, li ebbe confermati nella loro dignità di Apostoli, allora compresero perfettamente, per la parola di Pietro, gli splendori che avevano contemplato. Pietro, il capo della Chiesa, colui che aveva ricevuto dal Verbo Incarnato la missione «di confermare i fratelli nella fede», (Luc. XXII, 32) annunzia che «la maestà di Gesù gli è stata rivelata; e che Gesù ha ricevuto da Dio Padre onore e gloria sulla santa montagna» (II Petr. I, 16-18. Epistola della festa). Pietro, supremo Pastore, si appella a questa visione per esortare i suoi fedeli e quindi pur noi, a non vacillare nella fede.

Perché la Trasfigurazione ebbe luogo anche per noi. I discepoli scelti per esserne i testimoni, dice S. Leone, rappresentano l'intera Chiesa, alla quale non meno che agli Apostoli si indirizza la voce dell'eterno Padre proclamante la divinità del Figlio e comandando che lo si ascolti (S. Leone, l. c.).

La Chiesa, nell'orazione della festa, ha condensato perfettamente gli insegnamenti preziosi di questo mistero.

Per noi, come per gli Apostoli, la Trasfigurazione «conferma la nostra fede»; inoltre «la nostra adozione di figli di Dio vi è significata in modo mirabile»; finalmente, la Chiesa domanda «che noi diventiamo un giorno coeredi del Re di gloria e che possiamo prender parte al suo trionfo». 

La Trasfigurazione conferma la nostra fede. Che cosa è infatti la fede? E' una misteriosa partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso. Dio si conosce come Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Padre, conoscendosi, genera da tutta l'eternità un Figlio somigliante a lui. Hic est Filius meus dilectus in quo mihi bene complacui. 

Queste parole sono la più grande rivelazione che Dio abbia fatto alla terra e come l'eco stessa della vita del Padre. Il Padre, in quanto Padre, vive generando il Figlio, e questa generazione, che non ha né principio né fine, costituisce la proprietà stessa del Padre. Nell'eternità noi vedremo con stupore, ammirazione ed amore, questa processione del Figlio generato nel seno del Padre. Questa processione è eterna: Filius meus es tu, ego hodie genui te (Ps. II, 7). Questo «oggi», questo hodie, è il presente dell'eternità. Quando ci dice che Gesù è il suo Figlio diletto, il Padre ci rivela la sua vita; e quando crediamo a questa rivelazione, partecipiamo alla conoscenza di Dio medesimo. Il Padre conosce il Figlio negli splendori interminabili; noi lo conosciamo nelle ombre della fede in attesa delle chiarezze della eternità. Il Padre dichiara che il bambino di Bethlehem, il giovanetto di Nazareth, il predicatore della Giudea, il suppliziato del Calvario è suo Figlio, suo Figlio diletto, e la nostra fede consiste nel credervi. E' una cosa eccellente, nella vita spirituale, di tenere sempre presente innanzi agli occhi dell'anima queste testimonianze del Padre. Nessuna altra cosa può sostenere con altrettanta potenza la nostra fede. Quando noi leggiamo il Vangelo, o una vita di nostro Signore, o celebriamo i suoi misteri o ci rechiamo a fargli visita nel Santo Sacramento, o ci disponiamo a riceverlo nel nostro cuore con la santa Comunione o lo adoriamo dopo averi o ricevuto, in tutta la nostra vita insomma, studiamoci di avere abitualmente dinanzi a noi questa parola: «Questi è mio Figlio diletto in cui ho riposto le mie compiacenze».

E allora diciamo: «Sì, o Padre, io lo credo, io voglio ripeterlo dopo di voi: questo Gesù che è in me per la fede, per la comunione, è vostro Figlio; e poiché voi lo avete detto, io lo credo; e poiché io lo credo, io lo adoro per render gli i miei omaggi; e con lui e per lui, per rendere pure a voi, o Padre celeste, in unione col vostro Spirito, ogni onore e ogni gloria».

Questa preghiera è quanto mai gradita al nostro Padre celeste; e quando è vera, pura, frequente, rende noi oggetto dell'amore del Padre, onde Dio avvolge anche noi in quelle compiacenze che egli ripone nel suo Figlio Gesù. E' nostro Signore stesso che ce lo dice: «Il Padre vi ama perché voi avete creduto che io sono uscito da lui» (Joan. XVI, 27) e che io sono suo Figlio. Quale felicità non è mai per un'anima di essere oggetto dell'amore del Padre, di quel Padre «da cui scende ogni dono perfetto» (Jac. I, 17) che letizia i cuori! E con ciò noi ci rendiamo accetti anche al Figlio. Egli vuole che proclamiamo la sua divinità e che in essa noi abbiamo una fede viva, profonda, energica, al sicuro da ogni attacco: «Beato colui che non si sarà scandalizzato di me»; (Matth. XI, 6; Luc. VII, 23) colui che, nonostante gli abbassamenti della mia incarnazione, gli oscuri travagli della mia vita nascosta, le umiliazioni della mia passione, gli attacchi e bestemmie onde io sono costantemente l'oggetto, le lotte che debbono sostenere quaggiù i miei discepoli e la mia Chiesa, resta fermo nella sua fede in me e non si vergogna di me.

Osservate gli Apostoli durante la passione di Gesù: la loro fede è debole, e sono fuggiti. Solo S. Giovanni ha accompagnato il suo divino Maestro fino al Calvario. E noi sappiamo che, dopo la risurrezione, quando la Maddalena e le altre sante donne vennero a dire da parte di Cristo stesso che esse lo avevano visto risuscitato, essi non hanno creduto dicendo che si trattava di fantasie di donne e di chiacchiere. Osservate anche i due discepoli che si recavano ad Emmaus; bisogna che nostro Signore si unisca a loro e, spiegando i sensi scritturali, dimostri ad essi «che era necessario che tutto ciò che era scritto di lui nella Legge di Mosè, nei profeti e nei salmi, si adempisse», (Ibid. XXIV, 44) prima che egli entrasse nella sua gloria.

Crediamo dunque fermamente nella divinità di Gesù, né permettiamo che essa venga mai manomessa; ricordiamoci, per rinvigorirla, la testimonianza dell'eterno Padre nella Trasfigurazione: e la nostra fede troverà in essa uno dei suoi appoggi migliori. 

L'orazione della festa ci dice ancora che «la nostra adozione quali figli di Dio è stata mirabilmente atte stata dalla voce divina uscita dalla nube luminosa».

L'eterno Padre ci fa conoscere che Gesù è il Figlio suo; ma, voi lo sapete, Gesù è pure «il primogenito di una moltitudine di fratelli» (Rom. VIII, 29). Avendo assunta la nostra umana natura egli ci rende partecipi, con la grazia, della sua figliazione divina. Se egli è il Figlio di Dio per natura, noi lo siamo per grazia. Gesù è uno dei nostri per la sua Incarnazione; ci rende a lui somiglianti col conferirci una partecipazione alla sua divinità per modo che non facciamo più con lui che un solo corpo mistico. E' questa l'adozione divina (Joan. III, 1).

Proclamando che Gesù è suo Figlio, il Padre proclama altresì che coloro che partecipano, colla grazia, alla sua divinità, sono parimenti, quantunque sotto altro titolo, figli suoi. Questa adozione ci viene conferita per mezzo di Gesù (Jac. I, 18). E adottandoci per figli suoi il Padre ci conferisce pure il diritto di aver parte un giorno alla sua vita divina e gloriosa. «E' questa l'adozione perfetta»: Adoptio perfecta.

Da parte di Dio essa è perfetta: perché «tutte le sue opere portano l'impronta di una sapienza infinita» (Ps. CIII, 24). Osservate infatti di quali ricchezze Dio ricolmi quelli che vengono adottati da lui per rendere incomparabile questo dono: la grazia santificante, le virtù infuse, i doni dello Spirito Santo, i soccorsi che egli ci accorda ogni giorno: tutto ciò insomma che costituisce quaggiù per noi l'ordine soprannaturale. E per assicurarci tutte queste ricchezze ci fa il dono della Incarnazione del Figlio suo, dei meriti infiniti di Gesù che ci vengono applicati nei sacramenti, e finalmente della Chiesa con tutti quei privilegi che a lei conferisce il suo titolo di Sposa di Cristo. Sì, questa adozione da parte di Dio è veramente perfetta.

Ma da parte nostra? Da parte nostra non può essere certo perfetta quaggiù. Essa però va sempre sviluppandosi, dal giorno in cui ci è stata accordata col battesimo, come un germe che deve crescere, un abbozzo che ha da essere ultimato, un'aurora che deve giungere al suo meriggio. La perfezione noi la conseguiamo quando, dopo essere stati costantemente fedeli, la nostra adozione sboccerà nella gloria (Rom. VIII, 17).

La Chiesa termina quindi l'orazione della festa chiedendo per noi «di pervenire all'adozione perfetta la quale non si realizza che nella gloria del cielo».

E noi assistiamo difatti, nella Trasfigurazione, alla rivelazione della nostra futura grandezza. E in che modo? L'eredità che Cristo possiede come Figlio di Dio, l'accorda anche a noi, di diritto, come a suoi membri.

E' il pensiero di S. Leone: «Con questo mistero della Trasfigurazione, una provvidenza non meno grande ha fondato la speranza della Chiesa; il corpo intero di Cristo (cioè le anime che costituiscono il suo corpo mistico), può riconoscere fin d'ora quale trasformazione gli verrà accordata; i membri possono essere sicuri che saranno un giorno resi partecipi dell'onore che risplende nel loro capo» (S. Leone, l. c.).

Quaggiù per mezzo della grazia, noi siamo figli di Dio; ma «noi non sappiamo ancora quel che saremo un giorno in conseguenza di questa adozione» (Joan. III, 2); il giorno verrà quando «avendo le folgori illuminata, scossa e fatta tremare la terra fin nei suoi fondamenti», (Introito della festa) «i giusti, secondo la parola dello stesso Gesù, risorgeranno per la gloria» (Matth. XIII, 43). I loro corpi saranno gloriosi a somiglianza del corpo di Cristo sul Tabor: la gloria stessa che sfolgora sull'umanità del Verbo Incarnato trasfigurerà il nostro corpo. S. Paolo lo dice apertamente (Philip. III. 21).

Non dobbiamo credere che Gesù sul santo monte avesse tutto quello splendore onde rifulge presentemente nel cielo; era soltanto un irraggiamento, e tuttavia era così abbagliante che i discepoli ne furono rapiti.

Da che cosa proveniva questo irraggiamento meraviglioso? Dalla divinità. Era come un fluire della divinità attraverso la santa umanità, una irradiazione del focolare della vita eterna, in Cristo ordinariamente nascosto e che, in quell'ora, faceva risplendere il suo sacro corpo d'un fulgore meraviglioso. Non era una luce tolta ad imprestito e veniente dal di fuori; era realmente un riflesso di quella inenarrabile maestà che Cristo chiudeva e quasi comprimeva in se stesso. Spinto dall'amore che ci portava, Cristo, durante la sua vita terrena, nascondeva ordinariamente, sotto il velo di una carne mortale, la vita divina impedendole di prorompere in una luce continua che avrebbe accecato i nostri deboli occhi; ma nella Trasfigurazione ha voluto dar libertà alla gloria eterna lasciandole proiettare il suo splendore sull'umanità che aveva assunta.

Questo ci mostra che la nostra santità non è altro che la nostra rassomiglianza con Gesù Cristo, non una santità di cui possiamo essere noi stessi la prima sorgente, ma che è la penetrazione in noi della vita divina.

Per la grazia di Cristo, questa santità ha cominciato «a spuntare in noi» (Cf. II Petr. I, 19) nel battesimo che inizia la nostra trasformazione secondo l'immagine di Gesù. La santità non è infatti quaggiù che una trasformazione interiore modellata su Cristo (Rom. VIII. 29). Per la nostra fedeltà all'azione dello Spirito, questa immagine ingrandisce a poco a poco, si sviluppa, si perfeziona sino a che giungiamo alla luce eterna. La trasfigurazione apparirà allora agli occhi degli angeli e degli eletti e sarà la ratificazione suprema «dell'adozione perfetta» che farà scaturire in noi una sorgente inesauribile di gioia. 

IV. Mezzo di pervenire allo stato glorioso presagito dalla Trasfigurazione: «Ascoltare Gesù, Figlio diletto del Padre»: Ipsum audite

Tale lo stato glorioso che ci aspetta, perché tale è lo stato glorioso del nostro Capo Gesù, di cui noi siamo le membra, stato glorioso e mirabile che la Trasfigurazione ci fa intravedere sul Tabor proponendolo alla nostra fede come un argomento di speranza.

Se non che, mi direte: Che cosa dobbiamo fare per arrivarvi? Quale via dobbiamo seguire per giungere a quella gloria beata di cui contempliamo un raggio nella Trasfigurazione del nostro Divin Salvatore?

C'è una sola via e lo stesso Padre celeste ce la mostrerà. Il Padre che ci adotta, che ci chiama alla celeste eredità per farci parte della sua beatitudine e della pienezza della sua vita, il Padre ci addita egli stesso il cammino in questo stesso mistero: «Ecco il mio Figlio diletto in cui ho poste le mie compiacenze». Abbiamo già udite queste parole al Battesimo di Gesù; ma nella Trasfigurazione il Padre aggiunge una nuova parola che include il segreta della nostra vita: Ipsum audite: «Ascoltatelo». E' come se per farci arrivare a lui, Dio si rimettesse del tutto a Gesù. E tale è veramente l'economia dei disegni divini.

Il Verbo Incarnato, essendo il Figlio di Dio che vive ognora nel seno del Padre, ci fa conoscere i segreti divini (Joan. I, 18). Egli è la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo; dove essa è, non vi sono tenebre; ascoltar lui è lo stesso che ascoltare il Padre che ci chiama, perché la dottrina di Gesù non è la sua dottrina, ma la dottrina di colui che l'ha mandato; (Cf. Ioan. VII, 16) «tutto quanto egli c'insegna glielo ha detto il Padre di rivelarcelo» (Ibid. XV, 15). Egli è ormai «la sola via che conduce al Padre» (Ibid. XIV, 6). «Altre volte, Dio ha parlato e frequentemente, per mezzo di Mosè e dei profeti; ora egli non ci parla che per mezzo del Figlio suo» (Hebr. I, 1-2).

E guardate: a farci ben comprendere questa cosa, Mosè ed Elia spariscono quando la voce del Padre ci intima di ascoltare suo Figlio (Luc. IX, 36). Egli solo è ormai il mediatore, egli solo compie i profeti e riassume la Legge. Egli sostituisce le realtà alle figure ed alle profezie, e al posto della Legge antica di servitù, mette la Legge nuova di adozione e di amore.

Per essere figlio del Padre celeste, per giungere «all'adozione perfetta» e gloriosa non abbiamo da far altro che ascoltare Gesù (Joan. X, 27). E quando egli ci parla? Ci parla nel Vangelo, ci parla con la voce della Chiesa, con la voce dei pastori, con quella degli avvenimenti, delle prove, e con le ispirazioni del suo Spirito.

Se non che, a ben intendere queste voci, occorre il silenzio, occorre, come Gesù nella Trasfigurazione, ritirarsi in un luogo solitario. Certo, Gesù si trova dovunque, anche nel tumulto delle grandi città, ma non lo si ascolta bene che nella calma di un'anima circondata di silenzio, non lo si comprende perfettamente «che nella preghiera». Dum oraret; allora in modo particolare egli si rivela ad un'anima per attirarla a sé e trasfigurarla. Nell'ora della preghiera ricordiamoci che il Padre ci mostra suo Figlio: Hic est Filius meus dilectus. Adoriamolo allora con riverenza profonda, fede viva e amore ardente. Ed allora lo ascolteremo anche: «egli solo ha parole di vita eterna» (Joan. VI, 69). Ascoltiamolo con la fede e con l'accettazione di tutto quanto egli ci dice: «Sì, o Signore, io lo credo perché voi lo dite; voi siete sempre nel seno del Padre; voi vedete i segreti divini nello splendore della luce eterna; noi crediamo quanto voi ci rivelate». La fede è per noi la lampada di cui ci parla l'Apostolo, testimone della vostra Trasfigurazione, (II Petr. I, 16-18. Epistola della festa) «lampada che risplende nelle tenebre per insegnarci la via»: Lucerna lucens in caliginoso loco. Noi procediamo in mezzo a questa luce attorniata di tenebre; e, nonostante queste tenebre, dobbiamo camminare con coraggio. Ascoltare Gesù non è soltanto ascoltarlo con gli orecchi del corpo, perché si ascolta anche con gli orecchi del cuore: bisogna che la nostra fede sia pratica traducendosi in opere degne di un vero discepolo di Gesù e conformi allo spirito del suo Vangelo. E' ciò che S. Paolo chiama «piacere a Dio»: piacere Dea; frase che la Chiesa (Postcommunio della 2.a Domenica di Quaresima) ha fatta sua quando domanda per noi a Dio di diventare figli degni del nostro Padre celeste.

E ciò, nonostante le tentazioni, le prove e le sofferenze. Non ascoltiamo la voce del demonio: le sue sono le suggestioni del principe delle tenebre; non lasciamoci neppure travolgere dai pregiudizi del mondo: le sue sono massime traditrici; guardiamoci pure dal lasciarci sedurre dalle sollecitazioni dei sensi la cui soddisfazione non porta all'anima che turbamento.

Noi non dobbiamo ascoltare e seguire che il solo Gesù. Abbandoniamoci a lui con la fede, la confidenza, l'amore, l'umiltà, l'obbedienza. Se l'anima nostra si chiude ai rumori della terra, al tumulto delle passioni e dei sensi, il Verbo Incarnato ce ne renderà a poco a poco padroni, ci farà comprendere che le vere gioie, le gioie più profonde sono quelle che si gustano al suo servizio.

L'anima che ha la felicità di essere ammessa, come gli Apostoli privilegiati, nell'intimità del divino Maestro, proverà talvolta il bisogno di gridare con S. Pietro: Domine, bonum es nos hic esse, «Signore, noi stiamo bene qui». Certo, Gesù non ci conduce sempre al Tabor, «là dove si sta bene»; non sempre ci accorda consolazioni sensibili: se ce le accorda non bisogna respingerle perché vengono da lui: bisogna accoglierle umilmente, non cercarle però per se medesime né restarvi attaccati. S. Leone osserva che nostro Signore non rispose a Pietro quando gli propose di alzare delle tende per costruire una stabile dimora in quel luogo di beatitudine; non perché tale cosa fosse da condannarsi, ma perché non era ancora il momento. Sino a che noi siamo quaggiù, Gesù ci conduce più spesso al Calvario, cioè, alla contraddizione, alla prova, alla tentazione (S. Leone, l. c.). Osservate: su che cosa si trattenne a parlare sul monte con Mosè ed Elia? Forse sulle sue prerogative divine o sulla sua gloria che estasiava i discepoli? No, parlò della sua prossima Passione, dell'immensità delle sue sofferenze che stupivano Mosè ed Elia nel modo stesso che li abbagliava l'eccesso del suo amore. E' per la Croce che Gesù ci conduce alla vita, e poiché egli sa che noi siamo deboli nella prova, ha voluto mostrare nella sua Trasfigurazione quale gloria eravamo chiamati a dividere con lui se gli fossimo sempre fedeli: Coheredes autem Christi, si tamen compatimur ut el conglorificemur (Rom. VIII, 17).12 Quaggiù non è il tempo del riposo, ma quello del lavoro, dello sforzo, delle lotte e della pazienza.

Restiamo fedeli a Gesù ad onta di tutto. Abbiamo inteso che egli è il Figlio di Dio, eguale a Dio: la sua parola non passa, è il Verbo eterno. Ora, egli afferma che colui che lo segue, giungerà «alla luce della vita»: Habebit lumen vitae (Joan. VIII, 12).13 Felice l'anima che l'ascolta, che non ascolta che lui, e l'ascolta sempre, senza dubitare della sua parola, senza lasciarsi scuotere dalle bestemmie dei suoi nemici, senza lasciarsi vincere dalle tentazioni o abbattere dalle prove (l. c.).14 «Noi non sappiamo, dice S. Paolo, quale peso di gloria ci sia riservata per la più piccola sofferenza sopportata in unione con Gesù Cristo» (Cf. II Cor IV, 17).15 - «Dio è fedele», (I Cor 1, 9; X, 13; II Thess. III, 3)16 e attraverso a tutte le vicende per le quali fa passare un'anima, la conduce infallibilmente a questa trasformazione che la rende somigliante al Figlio suo.

Per tal modo la nostra trasfigurazione in Gesù si realizza a poco a poco, interiormente, sino a che giunga il giorno in cui apparirà sfolgorante in quella società di eletti che portano il segno dell'Agnello e che l'Agnello trasfigura perché essi sono suoi.

Ce lo ha promesso il Signore: Il mondo godrà, diceva prima di lasciarci, e voi sarete nell'afflizione e nella prova, (Joan. XV, 20) come vi fui io stesso prima di entrare nella mia gloria» (Luc. XXIV, 26). Ciò è necessario, è la via stessa della mia Provvidenza; ma restate saldi, «abbiate fiducia»; (Joan. XVI, 33) io sono con voi sino alla consumazione dei secoli, (Matth. XXVIII, 20). Attualmente la vostra fede mi riceve ogni giorno nel mistero dei miei abbassamenti, ma io verrò un giorno nella rivelazione piena della mia gloria. E voi, o miei fedeli discepoli, entrerete nella mia gioia, avrete parte alla mia gloria, perché siete una sola cosa con me. Non l'ho forse domandato a mio Padre prima di pagarne il prezzo col mio sacrificio? «Io voglio, o Padre, che là dove sono io, ivi siano anche i miei discepoli, che voi mi avete dato; che essi vedano e dividano la mia gloria che ho ricevuta da voi prima della creazione del mondo» (Joan. XVII, 24). Per voi, che chiamo miei amici; voi, cui ho confidati i segreti della vita divina, come il Padre mio lo comandava, voi che mi avete creduto e non mi avete abbandonato, voi entrerete nella mia gioia e vivrete della mia vita. Vita piena, gioia perfetta, perché vi donerò la mia stessa vita e la mia gioia di Figlio di Dio (Ibid. XV, 11).