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18/L'Eucaristia è un mistero di fede

Tutti i misteri di Cristo sono essenzialmente misteri di fede, senza della quale non possiamo né accettarli né meditarli; tuttavia diverso è il grado di luce che nei diversi misteri rischiara la nostra fede. Guardate a Bethlehem: non vediamo nella grotta che un piccolo bimbo e senza la fede non riconosceremmo in lui il Figlio di Dio, il padrone sovrano di tutte le creature: ma ecco che udiamo la voce degli angeli del cielo celebrare la venuta del Salvatore della terra; ecco che vediamo una stella meravigliosa condurre ai suoi piedi i re dell'Oriente.

Al battesimo di Gesù non vediamo che un uomo, il quale si sottopone, come tutti gli altri Giudei, a un rito di penitenza; ma ecco che il cielo si apre, e la voce dell'eterno Padre proclama che quest'uomo è il Figlio della sua predilezione in cui ha riposto tutte le sue compiacenze.

Allo stesso modo sul Tabor; nel mistero della Trasfigurazione la fede è potentemente aiutata: la gloria della divinità che penetra l'umanità di Gesù risplende visibilmente e i discepoli estasiati si prostrano con la faccia per terra.

La divinità è invece nascosta e velata quando Cristo muore sulla croce, come l'ultimo degli uomini, in mezzo ai tormenti, e tuttavia il centurione proclama che egli è veramente il Figlio di Dio e la natura stessa, con lo scompiglio cui viene sottoposta in quel momento, rende al Salvatore un omaggio.

Nella risurrezione che cosa vediamo? Gesù è tutto sfolgorante di gloria, ma nel medesimo tempo dimostra ai discepoli di essere sempre il medesimo, uomo non meno che Dio: si fa toccare, mangia con loro, fa loro vedere le cicatrici delle sue piaghe, per dimostrare che egli non è solo uno spirito, ma anche il medesimo Gesù con cui essi per tre anni hanno vissuto.

Voi dunque potete constatare che in ogni mistero di Gesù vi è l'ombra per rendere meritoria la nostra fede, e la luce per aiutarla: in tutti vediamo rivelata l'ineffabile unione della divinità con l'umanità. 

Sennonché vi ha un mistero in cui l'umanità e la divinità, anziché rivelarsi, spariscono ambedue ai nostri occhi: è il mistero dell'Eucaristia. Che cosa vi è sull'altare prima della consacrazione? Un po' di pane e un po' di vino. E dopo la consacrazione? Per i sensi, per la vista, il gusto ed il tatto, vi è ancora del pane e del vino. La fede sola penetra al di là di questi veli fino alla realtà divina racchiusa sotto di essi. Senza la fede non vi vedremmo che del pane e del vino, non vi vedremmo Iddio quale si rivela a noi nel Vangelo e «neppure vi vedremmo l'uomo»: In cruce latebat sola deitas, At hic latet simul et humanitas (Inno Adoro te).

Quando Gesù Cristo, durante la sua vita terrena, proclamava di essere Figlio di Dio ne dava anche la prova: si constatava con certezza che era un uomo, ma un uomo «la dottrina del quale non poteva venire che da Dio»; (Joan. III, 34) e «che quell'uomo operava dei miracoli che Dio solo può operare» (Ibid. IX, 32-33). Nicodemo il Fariseo, con il cieco nato, lo riconosceva anche: «Maestro, sappiamo che tu sei venuto da parte di Dio, poiché nessuno saprebbe fare i miracoli che fai se Dio non fosse con lui» (Ibid. III, 2).

La fede era anche allora necessaria, ma i miracoli di Gesù e la sublimità della sua dottrina aiutavano la fede dei Giudei, sia degli ignoranti come dei dotti.

Nell'Eucaristia invece non vi è posto che per la fede pura che si fonda unicamente sulla parola di Gesù: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue»: l'Eucaristia è innanzi tutto un «mistero di fede»: mysterium fidei (Canone della messa).

In questo mistero, più ancora che in quelli che abbiamo meditati fin qui, dobbiamo ascoltare unicamente Gesù; la ragione resta tanto confusa che coloro che non ascoltano Gesù sono costretti a dire come quei Giudei cui nostro Signore annunziava l'Eucaristia (Joan. VI, 61) «Questa parola è ben dura e chi può mai sopportarla?». E si allontanarono da Cristo. Noi dobbiamo invece andare a Gesù come fecero in quell'occasione gli Apostoli fedeli, e dirgli con Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di eterna vita; noi abbiamo creduto e sappiamo che tu sei il Cristo Figlio del Dio vivente» (Ibid. 69-70).

Interroghiamo dunque nostro Signore a proposito di questo mistero. Gesù Cristo è la verità infallibile, la sapienza eterna, l'onnipotenza. Quanto ha egli promesso, perché non dovrebbe effettuarlo?

I. Il sacrificio dell'altare perpetua la memoria di Gesù.

Il nostro divin Salvatore istituendo questo mistero allo scopo di perpetuare i frutti del suo sacrificio, disse ai suoi Apostoli: «Voi farete questo in memoria di me» (Luc. XXII, 19; I Cor XI, 24). Così, oltre lo scopo primo di rinnovare la sua immolazione e di farci partecipare ad essa mediante la comunione, Cristo ha aggiunto all'Eucaristia un carattere commemorativo. In che modo questo mistero conserva il ricordo di Cristo? E in che modo lo ricorda ai nostri cuori?

L'Eucaristia è un ricordo di Gesù anzitutto come sacrificio.

Certo, e voi lo sapete, non vi è che un solo sacrificio plenario, totale, perfetto, che tutto ha pagato, tutto ha espiato, tutto ha meritato e da cui sgorga ogni grazia: è il sacrificio del Calvario e non ve n'è un altro (Hebr. X, 14): «Con una sola oblazione, dice S. Paolo, Cristo rese perfetti in perpetuo quelli che sono santificati».

Ma perché i meriti di questo sacrificio fossero applicati a tutte le anime di tutti i tempi, Cristo ha voluto che esso venisse rinnovato sull'altare.

L'altare è un altro Calvario dove è ricordata, rappresentata e riprodotta l'immolazione della croce: dovunque si trovi un sacerdote per consacrare il pane e il vino, si conserva il ricordo della Passione. Ciò che viene offerto e donato sull'altare «è il corpo che per noi fu offerto, il sangue che fu sparso per la nostra salute» (Cf. Matth. XXVI, 28; Marc. XIV, 24; Luc. XXII, 19-20). Ed è il medesimo Pontefice, cioè Cristo Gesù, che li offre ancora mediante il ministero dei suoi sacerdoti. Come è possibile allora non pensare alla Passione, quando assistiamo al sacrificio della messa, ove tutto è identico, tranne la maniera con cui l'oblazione è fatta? (Concil. Trid., Sess., XXII, cap. II). Nessuna messa si celebra, non si fa nessuna comunione se non ci si ricorda che Cristo si è consegnato alla morte per il riscatto del mondo; perché, dice S. Paolo, «ogni volta che mangerete di questo pane e berrete di questo calice, ricorderete la morte del Signore e così sarà fino all'ultimo giorno» (I Cor XI, 26). Così si perpetua, vivo e fecondo, sino alla fine dei tempi, il ricordo di Cristo tra coloro che è venuto a riscattare colla sua immolazione.

L'Eucaristia è dunque il memoriale della passione e della morte di Cristo ed il testamento del suo amore. Ovunque vengano offerti il pane ed il vino, ovunque si trovi l'ostia consacrata, ivi si trova pure il ricordo dell'immolazione di Cristo.

L'Eucaristia ci ricorda, innanzi tutto, la memoria della passione di Gesù. Gesù la istituì la vigilia della sua morte ed è come il suo testamento di amore.

Ma essa non esclude affatto gli altri misteri. Osservate quello che fa la Chiesa. Essa è la Sposa di Cristo. Nessuno meglio di lei conosce le intenzioni del suo Capo divino, e nell'organizzazione del culto pubblico che gli rende, è guidata dallo Spirito Santo. Ora che cosa dice essa? Appena è finita la consacrazione, ricorda prima di tutto le parole di Gesù: «Fate questo in memoria di me». E subito, a mostrare come essa partecipi ai sentimenti del suo Sposo aggiunge: «Perciò, o Signore, noi che siamo i vostri servi e con noi la vostra santa assemblea, in memoria della beata passione del medesimo nostro Signor Gesù Cristo, e della sua risurrezione dall'inferno come pure della sua ascensione gloriosa al cielo, noi offriamo alla vostra divina maestà... il pane consacrato della vita eterna e il calice della salute perpetua» (Una identica orazione ha luogo dopo l'Offertorio: «Ricevete, o Santa Trinità, questa oblazione che noi vi offriamo in memoria della Passione, della Risurrezione e dell'Ascensione del Signore»).

I Greci, dopo aver menzionato «l'ascensione alla destra del Padre», commemorano parimenti «il secondo e glorioso avvenimento» (Cf. D. E. Vandeur, La Santa Messa, Note sopra la sua liturgia, 35° migliaio, pp. 222-226).

In tal modo, ancorché l'Eucaristia ricordi direttamente e primieramente la Passione di Gesù, non esclude il ricordo dei misteri gloriosi che si riallacciano così strettamente alla Passione e di cui sono, in certo senso, il coronamento. Dal momento che riceviamo il corpo e il sangue di Cristo, l'Eucaristia suppone l'Incarnazione e i misteri che si fondano su di essa o che da essa derivano. Cristo è sull'altare con la sua vita divina che mai tramonta, e con la sua vita mortale, la cui forma storica è senza dubbio cessata ma la cui sostanza ed i cui meriti permangono insieme alla sua vita gloriosa e immortale (Cf. Mgr. Gay, Della triplice vita di Gesù che la Santa Eucaristia contiene e comunica, nelle Elevazioni sulla vita e la Dottrina di N. S. Gesù Cristo, 114.a Elevazione). Tutto ciò, come sapete, si trova realmente nell'Ostia santa e viene dato realmente, nella comunione, alle nostre anime. Comunicandosi a noi, Cristo si dà nella totalità sostanziale delle sue opere e dei suoi misteri e nell'unità della sua persona. Sì, diremo insieme al Salmista che cantava in anticipo la gloria dell'Eucaristia (La Chiesa applica queste parole alla Santa Eucaristia nell'ufficio del SS. Sacramento): «Il Signore ha lasciato al suo popolo un ricordo delle sue meraviglie, nella sua misericordia e bontà egli ha dato un nutrimento a quei che lo temono (Ps. CX, 4-5).

L'Eucaristia è come la sintesi delle meraviglie dell'amore del Verbo Incarnato verso di noi. 

II. La manna, figura del sacramento eucaristico.

Se ora consideriamo l'Eucaristia come Sacramento, scopriremo in essa mirabili proprietà che Dio solo poteva inventare.

Vi ho detto spesso con S. Paolo, al quale questa idea è cara, che i principali avvenimenti della storia del popolo giudaico dell'Antico Testamento erano il simbolo, talvolta nascosto, oscuro, e talvolta manifesto e luminoso, delle realtà che dovevano illuminare la Nuova Alleanza stabilita da Cristo. Ora, secondo le stesse parole di nostro Signore, una delle figure più caratteristiche dell'Eucaristia è stata la manna, col quale alimento, che cadeva dal cielo per nutrire gli Ebrei nel deserto, il Signore confronta con particolare insistenza il pane eucaristico che darà al modo. Studiare dunque la figura e il simbolo per meglio afferrare la realtà, è partecipare agli stessi sentimenti di Cristo.

Ora ecco in quali termini lo scrittore sacro, organo dello Spirito Santo, ci parla della manna: «Voi avete, o Dio, saziato il vostro popolo col nutrimento degli angeli e gli avete dato dal cielo, senza fatica, un pane già fatto, capace di procurare ogni gioia e adatto a tutti i gusti. Questa sostanza era la dimostrazione dell'amore che voi sentite verso i figli vostri, e questo pane, accomodandosi ai desideri di chi lo mangiava, si trasformava in ciò che egli voleva» (Sap. XVI, 20-21).

La Chiesa ha raccolto queste magnifiche parole per applicarle, nel suo ufficio del SS. Sacramento, alla Eucaristia (Cantico del 3° Notturno del Mattutino [Breviario monastico]; cf. 2a antifona delle Laudi). Vedremo con quanta verità e pienezza esprimano le proprietà del nutrimento eucaristico e con quanta maggiore ragione possiamo cantare in omaggio all'Ostia santa ciò che l'autore ispirato cantava in onore della manna. Come la manna, l'Eucaristia è un nutrimento, ma un nutrimento spirituale. Gesù l'ha voluto istituire durante una cena e sotto forma di alimento. Gesù si offre a noi come nutrimento delle anime nostre. «La mia carne è veramente un nutrimento e il mio sangue una bevanda» (Joan. VI, 56).

Parimenti, come la manna, l’Eucaristia è un pane disceso dal cielo. Ma la manna non era che una figura imperfetta; nostro Signore diceva ai Giudei che gli ricordavano il prodigio del deserto: «Mosè non vi ha dato il pane del cielo, ma è stato il Padre mio a darvi il pane vero del cielo, perché il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dona la vita, non a un popolo solo, ma a tutti gli uomini».

E siccome i Giudei mormorano udendolo chiamarsi «il pane disceso dal cielo», Gesù aggiunge: «Io sono il pane di vita. I vostri padri hanno mangiato la manna e son morti; ecco il pane che discende dal cielo affinché colui che ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo disceso dal cielo; chi mangia di questo pane, vivrà eternamente», perché depone nei nostri corpi stessi il germe della risurrezione. «E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Ibid. 32-33, 48-52).

In queste parole lo stesso nostro Signore ci mostra come la divina realtà eucaristica sorpassi in pienezza, nella sua sostanza e nei suoi frutti, il nutrimento offerto un tempo al popolo giudaico.

Questo pane del cielo ci dà la vita alimentando in noi la grazia. Esso contiene anche «ogni soavità ed ogni dolcezza».

Niente è lieto come un banchetto; ora la comunione è il banchetto dell'anima, cioè a dire una sorgente di gioie profonde. E perché Gesù Cristo, che è verità e vita, principio di ogni bene e di ogni beatitudine, non dovrebbe riempire i nostri cuori di gioia? Facendoci bere al calice del suo divin sangue come potrebbe non versare nelle anime nostre quella spirituale allegrezza che eccita la carità e alimenta il fervore? Osservate Gesù al Cenacolo dopo avere istituito questo Sacramento: Parla ai suoi Apostoli della sua gioia, vuole che questa gioia, tutta sua, tutta divina, diventi anche la nostra, e che i nostri cuori ne siano ripieni (Ibid. XV, 11). E' appunto uno degli effetti dell'Eucaristia, se ricevuta devotamente, di riempire l'anima di gioia spirituale, che la rende pronta e consacrata del tutto al servizio di Dio. Non dimentichiamo tuttavia che questa gioia è innanzitutto spirituale. L'Eucaristia essendo, per eccellenza, «il mistero di fede», succede talora che Iddio permetta che questa gioia tutta interiore non abbia ripercussione alcuna sulla parte sensibile del nostro essere. Avviene che anime ferventissime restino come oppresse dall'aridità dopo ricevuto il pane della vita. Esse non debbono meravigliarsene e tanto meno scoraggiarsi. Se hanno portato alla comunione tutte le buone disposizioni possibili, se soffrono di questa loro impotenza, devono restare tranquille e conservare la loro pace. Cristo, sempre vivente, opera in silenzio ma sovranamente, nell'intime profondità dell'anima per trasformarla in lui: ciò che costituisce l'effetto più prezioso di questo celeste alimento: «Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui» (Ibid. VI, 57).

Che cosa ci dona ancora? Questo pane vivo che dona la vita, questo cibo delizioso che trasfonde la gioia ei viene largito «senza fatica». E' una delle proprietà della manna, e si verifica in modo meraviglioso nella Eucaristia! Difatti che cosa ci viene richiesto per poterci sedere al «festino del Re» e mangiare fruttuosamente il pane celeste? Che vi andiamo vestiti della «veste nuziale», (Matt. XXII, 11) cioè che siamo in istato di grazia e che la nostra intenzione sia retta.

Niente altro si richiede da parte nostra.

E per Gesù? Non è stato senza fatica che ci ha preparato questo banchetto. Sono stati necessari gli abbassamenti dell'Incarnazione, l'umiltà e gli oscuri lavori della vita nascosta, le fatiche dell'apostolato, le lotte contro i Farisei, i combattimenti contro il principe delle tenebre, e, finalmente, ciò che riassume, comprende, e corona tutto, i dolori della Passione. Solo a prezzo della sua sanguinosa immolazione e delle sue sofferenze senza nome, Gesù Cristo ci ha meritato questa grazia veramente inaudita di unirci intimamente a lui dandoci a mangiare il suo corpo santo e a bere il suo sangue prezioso.

Egli ha voluto istituire questo sacramento la vigilia della Passione, quasi a darci la prova più commovente dell'eccesso del suo amore per noi (Joan. XIII, 1). Appunto perché legato a un tal prezzo, questo dono è ricolmo della soavità dell'amore infinito di Cristo. Sono queste alcune fra le tante meraviglie figurate dalla manna e compiute, per la vita e la gioia delle anime nostre, dalla sapienza e dalla bontà del nostro Dio.

Come dunque non ammirarle insieme alla Chiesa? Come dunque «non circondare questi sacri misteri di tutto il nostro rispetto e della nostra adorazione»? (Orazione della festa del SS. Sacramento)

III. In questo sacramento troviamo la virtù dei misteri di Gesù.

Tra tutte le proprietà attribuite dalla S. Scrittura alla manna, ve n'è una che è particolarmente notevole. La manna era «un nutrimento che si adattava ai desideri di colui che la mangiava».

Nel pane celeste dell'Eucaristia possiamo trovare, così, il gusto di tutti i misteri di Cristo, se così posso esprimermi, e la virtù di tutti i suoi stati. Qui non consideriamo più l'Eucaristia come memoriale, ma come sorgente di grazie. E' questo un aspetto fecondo del mistero eucaristico sul quale è mio desiderio soffermarmi alquanto, poiché se lo studieremo bene sentiremo aumentare in noi l'amore e il desiderio di questo nutrimento celeste.

Voi lo sapete: nostro Signore si dà in cibo per alimentare in noi la vita divina della grazia: di più, mediante l'unione che questo Sacramento determina tra le anime nostre e la persona di Gesù,

(Joan. VI, 57) mediante la carità da questa unione alimentata, Gesù Cristo opera quella trasformazione che faceva dire a S. Paolo: «Io vivo; no, non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Galat. II. 20).

Tale la virtù propria di questo ineffabile Sacramento.

Sennonché questa trasformazione implica per noi molti gradi e comprende molte tappe. Non ci è possibile effettuarla d'un colpo; essa non si produce che a poco a poco, a misura che ci addentriamo nella conoscenza del Cristo, la cui vita è il nostro modello e la sua perfezione l'esemplare della nostra.

La pia contemplazione dei misteri di Gesù costituisce uno degli elementi di questa trasfigurazione. Quando con fede viva ci mettiamo a contatto con lui, Cristo produce allora in noi, mercè la virtù sempre efficace della sua santa umanità unita al Verbo, questa rassomiglianza che è il segno della nostra predestinazione.

Se ciò è vero della semplice contemplazione dei misteri, quanto più profonda e più larga non sarà mai la sua azione, quando viene egli stesso a soggiornare nelle anime nostre con la comunione sacramentale!

Questa unione è la più grande e la più intima che con Gesù si può avere sulla terra: l'unione che si compie tra il nutrimento e colui che lo prende. Cristo si dà per essere il nostro alimento; ma, all'opposto di quanto accade per il nutrimento corporeo, siamo noi che ci assimiliamo a lui: Cristo diventa la nostra vita.

Il primo effetto della manna era il nutrimento; la grazia propria dell'Eucaristia è parimenti di conservare in noi la vita divina nell'anima facendoci partecipare alla vita di Cristo. E al modo stesso che «la manna si adattava ai gusti di chi la prendeva, così la vita che Cristo ci comunica pel mezzo della comunione è tutta la sua vita che passa nelle anime nostre per divenire l'esemplare e la forma della nostra vita, per produrre in noi i diversi sentimenti del Cuore di Gesù, per farci imitare tutte le virtù che egli ha praticate nei suoi stati e diffondere in noi le grazie speciali da lui meritateci con i suoi misteri.

Indubbiamente (e non lo dobbiamo mai dimenticare) sotto le specie eucaristiche non si trova che la sostanza del corpo glorioso di Gesù, quale si trova presentemente in cielo e non qual era, ad esempio, nella grotta di Bethlehem.

Ma quando il Padre contempla il Figlio suo tra gli splendori celesti che cosa vede in lui? Vede colui che è vissuto per noi sulla terra per trentatre anni, vede tutti i misteri vissuti da questa vita, le soddisfazioni e i meriti di cui questi misteri erano sorgente, vede la gloria che questo suo Figlio gli ha dato vivendo ciascuno di tali misteri. In ciascuno di essi vede sempre il medesimo Figlio delle sue compiacenze, ancorché Gesù Cristo non sieda attualmente alla sua destra che nel suo stato glorioso. Parimenti, colui che noi riceviamo è il medesimo Gesù che è nato da Maria, che è vissuto a Nazareth, che ha predicato ai Giudei della Palestina; è il buon Samaritano; colui che ha guarito i malati, liberato la Maddalena dai demoni, risuscitato Lazzaro; colui che, stanco, s'addormentava nella barca; colui che agonizzava, straziato dal dolore; colui che fu crocifisso sul Calvario; è il glorioso risuscitato dalla tomba, il pellegrino misterioso di Emmaus che c si fa riconoscere alla frazione del pane»; (Luc. XXIV, 35) è colui che è salito al cielo, alla destra del Padre; è il Pontefice eterno, sempre vivente, che prega senza interruzione per noi.

Tutti questi stati diversi della vita di Gesù, la comunione ce li dona nella sostanza, con le loro proprietà, il loro spirito, i loro meriti e le loro virtù; perché sotto la diversità degli stati e la varietà dei misteri si perpetua l'identità della persona che li ha vissuti e che, attualmente, vive eternamente in cielo.

Quando dunque noi riceviamo Cristo alla mensa eucaristica, possiamo contemplarlo e trattenerci con lui in uno qualsiasi dei suoi misteri; sebbene egli si trovi ora nella sua vita gloriosa, troviamo sempre in lui quegli che ha vissuto per noi e ha per noi meritato la grazia che quei misteri contengono e che Cristo, venuto in noi, ci comunica per compiere, a poco a poco, quella trasformazione della nostra vita nella sua che è l'effetto proprio del Sacramento. Basta, a comprender bene questa verità, percorrere le «secrete» e le «postcommunio» della messa nelle diverse feste del Salvatore. L'oggetto di queste preghiere, che occupano un posto specialissimo tra quelle del sacrifizio eucaristico, è diverso a seconda della diversa natura dei misteri celebrati.

Noi possiamo, ad esempio, unirci a Gesù in quanto vive nel seno del Padre, (Joan. I, 18) eguale a suo Padre e Dio come lui, e allora colui che adoriamo in noi stessi, l'adoriamo come il Verbo co­eterno al Padre, Figlio di Dio ed oggetto delle compiacenze del Padre suo: «Sì, io vi adoro in me, o Verbo divino, per l'unione che in questo momento io possiedo intimamente con voi; concedetemi di essere parimenti con voi nel seno del Padre, al presente, per mezzo della fede, e, più tardi, nell'eterna realtà, per vivere della vita stessa di Dio che è la vostra vita».

Noi possiamo adorarlo, come l'adorava la Vergine Maria, quando il Verbo Incarnato viveva in essa prima di venire al mondo. Solo in cielo sapremo con quali sentimenti di riverenza e di amore la Vergine si prostrava interiormente davanti al Figlio di Dio che prendeva da lei la nostra carne.

Possiamo altresì adorarlo in noi stessi come avremmo potuto adorarlo, diciannove secoli fa, nella grotta di Bethlehem, con i pastori ed i magi, e allora egli ci comunica la grazia di imitare le speciali virtù di umiltà, di povertà, di distacco che contempliamo in lui in questo periodo della sua vita nascosta.

Se lo vogliamo, egli sarà in noi l'agonizzante che con il suo mirabile abbandono alla volontà del Padre suo ci ottiene di poter portare la croce di ogni giorno; sarà il divino Risorto che ci ottiene di poterci distaccare da tutto ciò che è terrestre, di «vivere per Iddio», (Rom. VI, 11) con maggiore generosità e pienezza; sarà il trionfatore che sale al cielo pieno di gloria e che ci trasporta dietro di sé nel cielo affinché fin d'ora vi possiamo vivere per mezzo della fede, della speranza e dei santi desideri.

Cristo così meditato e ricevuto è il Cristo che rivive in noi tutti i suoi misteri; è la vita di Cristo che penetra nella nostra sostituendosi a noi con tutte le sue proprie bellezze, i suoi meriti particolari, e le sue grazie speciali. 

IV. In qual modo parteciparvi: con il sacrificio della messa, la comunione, la visita al SS. Sacramento. Rispetto profondo di cui bisogna circondare questo mistero. 

Nella esposizione fatta vi ho lasciato comprendere che la più perfetta partecipazione a questo divino mistero è la comunione sacramentale. 

Ma voi sapete che la Comunione stessa suppone il sacrificio. Noi quindi ci associamo al mistero dell'altare col semplice assistere al sacrificio della messa. Tutto avremmo donato per trovarci ai piedi della croce con la Vergine, S. Giovanni e la Maddalena! Ora l'oblazione dell'altare riproduce e rinnova l'immolazione del Calvario per perpetuarne il ricordo e applicarne i frutti. Durante la santa messa, dobbiamo unirci a Cristo e precisamente a Cristo immolato. Egli è, sull'altare (Cf. Apoc. V, 6), «agnello offerto come vittima», e appunto a questo sacrificio Cristo vuole associarci. Guardate l'altare dopo la consacrazione: il sacerdote, appoggiando all'altare le sue mani congiunte, gesto che significa l'unione del sacerdote e di tutti i fedeli col sacrificio di Cristo, fa questa preghiera: «O Dio onnipotente, vi supplichiamo di comandare che queste cose siano portate dinanzi al vostro sublime altare, in presenza della vostra divina maestà». 

La Chiesa mette qui in relazione due altari: quello della terra e quello del cielo, non perché vi sia nel santuario del cielo un altare materiale, ma perché la Chiesa vuole mostrare che non vi è che un sacrificio: l'immolazione che si compie misticamente sulla terra è la stessa dell'offerta che Cristo, Pontefice nostro, fa di se stesso nel seno del Padre cui offre per noi le soddisfazioni della sua passione. 

«Queste cose di cui si parla, dice Bossuet, sono veramente il corpo e il sangue di Gesù, ma esse sono quel corpo e quel sangue insieme a noi tutti e insieme a tutti i nostri voti e le nostre preghiere, e tutto questo complesso costituisce una medesima offerta» (Spiegazione di qualche difficoltà delle preghiere della Messa. Ed. Lachat, t. XVII, pag 60). 

Così, in quel momento solenne noi veniamo introdotti (Hebr. VI, 19) nel santuario della divinità, ma ciò avviene per Gesù e con Gesù; e là, al cospetto della divina maestà, in presenza di tutta la corte celeste, noi, insieme con Cristo, siamo presenti al Padre, perché il Padre «ci colmi di ogni grazia e di ogni celeste benedizione». 

Oh se la nostra fede fosse viva con quale riverenza assisteremmo a questo sacrificio! con quale cura cercheremmo di purificarci di ogni bruttura, per essere meno indegni, al seguito del nostro capo, e di entrare nel Santo dei Santi e formarvi con Cristo una sola ostia viva! «Allora solamente, dice bene S. Gregorio, Cristo diventa nostra ostia, quando offriamo noi stessi per partecipare con la nostra generosità e i nostri sacrifici, alla sua vita di immolazione» (Dialogo, lib. IV, c. 59). 

Il sacrificio eucaristico ci dà il Sacramento. Non si partecipa perfettamente al sacrificio che unendosi alla vittima. Nella preghiera che vi ho esplicato test è, la Chiesa domanda che noi siamo «riempiti di ogni grazia e di ogni benedizione celeste», ma a condizione che «ci associamo a questo sacrificio, ricevendo il corpo e il sangue di Gesù». Solamente dunque con la santa comunione entriamo perfettamente nel pensiero di Gesù e soddisfiamo pienamente ai desideri del Sacro Cuore manifestati da lui il giorno della istituzione eucaristica: «Prendete e mangiate»; (Matth. XXVI, 26) «se non mangerete la carne del Figlio dell'uomo, non avrete la vita» (Joan. VI, 54). La comunione è il primo dei doveri eucaristici. 

Ma occorre che portiamo a questo banchetto eucaristico le migliori disposizioni. E' indiscutibile che questo divin sacramento produce i suoi frutti in ogni anima che lo riceve in istato di grazia e con retta intenzione. Pertanto l'abbondanza di questi frutti è in relazione al fervore di ciascuno. 

Vi ho esposto lungamente altrove (Nella conf. Il Pane di vita, § V e VI, del vol. Cristo vita dell'anima) come queste disposizioni si riducano alla fede, alla confidenza, all'abbandono di tutti noi stessi a Gesù Cristo e ai membri del suo corpo mistico. Non mi è possibile ritornare ancora su questo argomento. Vi è tuttavia una disposizione che qui non bisogna tralasciare perché indicataci dalla Chiesa stessa nell'orazione del santo Sacramento. Si tratta della «riverenza». «Dateci, o Signore, una tale riverenza verso i santi. misteri del vostro corpo e del vostro sangue da poter ricevere costantemente in noi i frutti della vostra redenzione». 

La Chiesa domanda che usiamo riverenza verso il Cristo eucaristico. Perché? Per una duplice ragione. Anzitutto, perché Cristo è Dio. La Chiesa ci parla di «sacri misteri». La parola «mistero» indica che sotto le specie eucaristiche si nasconde una realtà; aggiungendovi la parola «sacri» ci fa capire che si tratta di una realtà santa e divina. 

Colui che si nasconde, infatti, nell'Eucaristia, è colui che, con il Padre e lo Spirito Santo, costituisce l'Essere infinito, l'Onnipotente, il principio di tutte le cose. Se nostro Signore ci apparisse in tutto lo splendore della sua gloria, i nostri sguardi non potrebbero sostenerlo; per darsi a noi si nasconde non più sotto la fragilità di una carne passibile, come nel mistero dell'Incarnazione, ma sotto le specie del pane e del vino. Oh diciamogli così: «O Signore Gesù, per amore nostro, per attirarci a voi, per divenire il nostro alimento, voi velate la vostra maestà. Ma non per questo perderete i nostri omaggi. Più voi nascondete ai nostri occhi la vostra divinità, più noi vogliamo adorarvi, più vogliamo prostrarci dinanzi a voi con rispetto ed amore». 

Adoro te devote, latens Deitas, Quae sub his figuris vere latitas (Inno Adoro te). 

La seconda ragione è che Gesù Cristo si è umiliato ed offerto per noi. La Chiesa ci ricorda che «questo mirabile sacramento è il memoriale per eccellenza della Passione di Gesù». Ora, durante la sua Passione. Cristo ha subito abbassamenti inauditi e si è sprofondato in ignominie senza nome. 

Appunto perché Cristo si è annientato, dice S. Paolo, ed è disceso fino a tali abbassamenti, il Padre lo ha esaltato e gli ha dato un nome al di sopra di ogni altro nome, affinché ogni ginocchio si piegasse davanti a lui e ogni lingua proclamasse che Cristo, Figlio di Dio, regna per sempre nella gloria del Padre suo. 

Investiamoci dunque di questo pensiero dell'eterno Padre che l'Apostolo ci addita. Più Cristo si è abbassato e annichilito, più noi dobbiamo, come il Padre, esaltarlo nel Sacramento che ci ricorda la sua passione; più noi dobbiamo prodigargli i nostri omaggi. Non meno che l'amore, lo esige la giustizia. 

E poi, non si è offerto per noi? Propter nos et propter nostram salutem (Credo della messa). Se ha sofferto, è stato per me; se la sua anima santa è stata immersa nella tristezza, nella noia e nel timore, è stato per me; se ha sopportato tante ingiurie da parte di un'insolente soldatesca, è stato per me; se è stato flagellato e coronato di spine, se è morto tra inenarrabili tormenti, è stato per me, per attirarmi a Lui (Galat. II, 20). Non dimentichiamoci che ciascuno degli episodi dolorosi della Passione è stato preordinato dalla Sapienza e accettato dall'Amore per la nostra salute. 

O Cristo Gesù, realmente presente sull'altare, io mi prostro ai piedi vostri; che ogni adorazione vi sia resa nel Sacramento che avete voluto lasciarci alla vigilia della vostra Passione, come prova dell'eccesso del vostro amore! 

Noi manifesteremo questa «venerazione» anche coll'andare a visitare Gesù nel tabernacolo. Non sarebbe, infatti, mancargli di rispetto abbandonare affatto questo ospite divino che ci aspetta? Egli è là, realmente presente, è il medesimo che era presente al presepio, a Nazareth, sulle montagne della Giudea, nel cenacolo, sulla croce. E' il medesimo Gesù che diceva alla Samaritana: «Se tu conoscessi il dono di Dio! Tu, che hai sete di luce, di pace, di gioia e di felicità, se sapessi chi io sia, tu stessa mi domanderesti dell'acqua viva... di quell'acqua della grazia divina che diviene una sorgente zampillante senza posa fino alla vita eterna» (Joan. IV, 10, 14). 

Egli è là realmente presente, ed è il medesimo che disse: «Io sono la via, la verità, la vita... (Ibid. XIV, 6) Chi mi segue non cammina nelle tenebre... (Ibid. VIII, 12) Nessuno va al Padre se non per me... (Ibid. XIV, 6) Io sono la vite, voi siete i tralci; colui che rimane in me ed io in lui, quegli solo potrà dare dei frutti, poiché senza di me voi non potete far niente... (Ibid. XV, 4.) Io non respingo colui che viene a me...(Ibid. VI, 37) Venite a me, o voi tutti che siete affaticati ed aggravati, ed io vi ristorerò... Le vostre anime non troveranno riposo che in me», (Matth. XI, 28-29) Egli è là ed è il medesimo Cristo che guariva i lebbrosi, calmava i flutti in tempesta e prometteva al buon ladrone un posto nel regno suo. Noi troviamo là il nostro Salvatore, il nostro amico, il nostro fratello maggiore, nella pienezza della sua onnipotenza divina, nella virtù sempre feconda dei suoi misteri, con l'abbondanza infinita dei suoi meriti e l'ineffabile misericordia del suo amore. 

Egli ci aspetta nel suo tabernacolo, non solo per ricevere i nostri omaggi, ma anche per accordarci grazie. Se la nostra fede nella sua parola non è un sentimento vano, andremo vicino a lui per mettere, con la fede, l'anima nostra a contatto colla sua santissima umanità. Siate sicuri che una «virtù uscirà allora da lui», (Luc. VI, 19; VIII, 46) come già un tempo, per riempirvi di gioia, di luce e di pace. 

Noi non possiamo sperare di «prender parte continua al frutto della redenzione di Gesù» se questa attitudine di rispetto e di riverenza non penetrerà profondamente nelle anime nostre. Occorre che questa venerazione sia tale da farci conseguire il dono divino nella sua più grande pienezza.

V. In qual modo, per la fede, siamo uniti a Cristo in questo sacramento e, per Lui, al Padre e allo Spirito Santo.

Ma perché mai, mi domanderete, perché mai la Chiesa sembra ridurre alla «venerazione» tutte le nostre disposizioni, rispetto a questo divin Sacramento? Quale ragione ha per comportarsi così? La ragione è che questo rispetto è un omaggio di fede. L'uomo che non ha la fede non piega il ginocchio dinanzi all'Ostia Santa. Questa riverenza non ha sorgente né alimento che nella fede.

Ora, come spesso ho dovuto ripetervi, la fede, radice di ogni giustificazione e condizione fondamentale di ogni progresso nella vita soprannaturale, è la prima disposizione per ricevere «il frutto della redenzione» di Cristo.

Qual è infatti questo frutto per le anime nostre? E' quello di rinascere alla vita divina della grazia e di ridivenire partecipi della eterna adozione. Noi non vi giungiamo che per mezzo della fede. La fede è la condizione prima per divenire figlio di Dio e cogliere, nella sua sostanza, questo frutto dell'albero della croce (Joan. I, 12-13). Col ricevere l'Eucaristia ci uniamo anzitutto alla santa umanità di Cristo, e questa unione si opera per mezzo della fede. Se credete che l'umanità di Gesù è l'umanità del Figlio di Dio, l'umanità propria del Verbo, e che in lui non vi è che una sola persona divina; se, con tutta la forza e tutta la pienezza della vostra fede, voi adorate questa santa umanità, è certo allora che vi mettete a contatto col Verbo per mezzo di questa sua umanità, perché è appunto questa la via che vi conduce alla divinità. Quando Gesù Cristo si offre a noi nella santa comunione, ci rivolge la domanda medesima che faceva un giorno ai suoi Apostoli: «Che dicono gli uomini di me?» (Matth. XVI, 13). E noi con Pietro dobbiamo rispondere: «Tu sei Cristo Figlio del Dio vivente» (Ibid. 16). Certo, io non vedo che un frammento di pane e un po' di vino; ma voi, che siete il Verbo, la Sapienza eterna e la Verità infinita, avete detto: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue»; e poiché l'avete detto voi, vi credo presente sotto queste umili ed infime specie. I nostri sensi non ci dicono nulla, ma la fede ci fa penetrare fino alla divina realtà nascosta sotto i veli eucaristici: Praestet fides supplementum sensuum defectui (Inno Pange lingua). E nostro Signore allora ci dice come al Centurione: «Sia fatto secondo la vostra fede» (Matth. VIII, 13). Poiché credete che sono Dio, mi do a voi con tutti i tesori della mia divinità, per colmarvi di essi e trasformarvi in me e mi do a voi con le ineffabili relazioni della mia intima vita di Dio.

Noi infatti non ci uniamo soltanto con Cristo. Cristo non fa «che uno col Padre suo», e non fa che uno nell'unità dello Spirito Santo. La comunione ci unisce, nello stesso tempo e al Padre e allo Spirito Santo. Cristo, Verbo Incarnato, è unito strettamente al Padre; quando noi ci comunichiamo, egli ci prende, ci unisce al Padre suo, come egli stesso gli è unito. «Io vi prego, o Padre, diceva Gesù nell'ultima cena, dopo avere istituita la santa Eucaristia, io vi prego non solo per i miei Apostoli, ma anche per quelli che, dopo la loro parola, crederanno in me, affinché tutti siano uno come voi, o Padre mio, siete in me ed io in voi, acciocché essi pure siano uno in noi... e siano uno come noi siamo uno, io in essi e voi in me» (Joan. XVII, 20-23).

Il Verbo ci unisce anche allo Spirito Santo. Difatti nell'adorabile Trinità, lo Spirito Santo è l'amore sostanziale del Padre e del Figlio. Cristo ce lo dà come già lo dava agli Apostoli per dirigerci per mezzo suo; egli ci comunica questo Spirito di adozione che rendendoci innanzi tutto testimonianza che siamo figli di Dio, ci aiuta poi con le sue illuminazioni e le sue ispirazioni a vivere «come dei figli diletti».

Oh qual santuario è dunque l'anima che si è comunicata! L'Eucaristia le offre il corpo e il sangue di Cristo, la divinità del Verbo unita indissolubilmente in Gesù alla natura umana; per il Verbo l'anima è unita al Padre e allo Spirito nella indivisibilità della loro natura increata.

La Trinità abita in noi, e l'anima nostra diventa il Cielo dove si producono le misteriose operazioni della vita divina. Noi possiamo allora offrire al Padre il Figlio della sua predilezione perché egli ponga nuovamente in lui le sue compiacenze; noi possiamo offrire queste compiacenze a Gesù perché nella sua anima santa siano rinnovate le inenarrabili gioie da essa provate al momento dell'Incarnazione; noi possiamo pregare lo Spirito Santo perché voglia essere il legame di amore che ci unisca al Padre ed al Figlio.

Non vi è che la fede la quale possa comprendere queste maraviglie e immergersi in questi abissi: Mysterium fidei...