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Mons.Marcel Lefebvre, nel nome della Verità

«Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi»1, sono le parole di Cristo Signore che rivelano l’identità profonda e la vocazione propria della Chiesa. Perciò, è suo impegno portare a tutti gli uomini l’annuncio del Vangelo, secondo il comando di Gesù: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura»2. Con l’urgenza di chi deve andare a convertire e salvare, padre Marcel ama fin da subito la nuova terra e sfrutta tutto il tempo a disposizione, come aveva insegnato uno dei grandi maestri della missionarietà, il beato Giuseppe Allamano (1851-1926), fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata:

«Bisogna essere operosi perché il tempo è breve. Con l’essere operosi si ha sempre tempo a tutto e ancora tempo di avanzo. Il Signore benedice l’operosità e l’energia. Bisogna agire. Se aspettiamo il tempo buono, non si fa mai niente. Facciamo oggi quel che è necessario, e domani si vedrà. Io potrei stare tranquillo: andare in coro, poi a pranzo, poi leggere la gazzetta, andare a riposo... E poi, e poi, me ne morrei da folle! È questa la vita che si deve fare? Siam destinati ad amare il Signore e dobbiamo fare del bene, tutto il bene possibile. La nostra vita vale in quanto è attiva per noi e per gli altri. Io sorrido quando sento dire che c’è tanto lavoro. Più lavoro c’è e più se ne fa, ma bisogna lavorare con energia, che è la caratteristica del missionario. Un vero missionario deve raddoppiare le forze... In certe occasioni si potrebbe trovare il tempo per moltiplicarsi. Gli uomini che hanno fatto grandi cose si moltiplicavano. Fare le cose bene sì, ma farle “sciolte”... Quando uno è a capo, bisogna che sia più ardimentoso degli altri»3.

Probabilmente padre Lefebvre non lesse mai le parole del beato Allamano, ma risultano perfette per incorniciare il suo profilo di evangelizzatore. Un giorno, nella boscaglia del Kenya, una figlia dell’Allamano, suor Gian Paola Mina, stava concludendo una lunga e lieta ora di catechesi ad un gruppo di donne, uomini e ragazzi seduti in terra. Fra di loro una donna con i piedi scalzi, mani rugose e ruvide, occhi scrutatori. Ascoltava rapita. Alla fine dell’incontro si alzò in piedi e parlò forte: «Se tutte le cose che hai detto sono vere, se quel Gesù di cui parli è veramente anche il nostro Salvatore, perché hai aspettato tanto a venircelo a dire?»4. Nella sua voce c’era un misto di chi è stata vittima di un torto, ma anche di chi, finalmente, scorge la luce. «Ora, ogni volta che qui in Italia», scriverà suor Gian Paola nel 1984, «partecipo a raduni dove giovani e adulti discutono se in questo mondo così pieno di atroci urgenze materiali e sociali, le missioni abbiano ancora ragion d’essere o se si debbano ancora evangelizzare i poveri, a me balza vivo alla memoria l’accorato rimprovero e il dito puntato di quella donna che, se fosse lì, griderebbe a tutti: “Se è vero che Gesù solo è il Salvatore e in lui solo la liberazione, perché invece di discutere non vi muovete a dirlo a chi non lo sa? Sapeste come è triste la vita senza di lui! Non abbiamo anche noi, i poveri, il diritto per primi di conoscere la sua misericordia?”»5. I poveri di padre Marcel sono quelli del Gabon, in particolare i Pongoués dell’Estuario, intelligenti e dediti al commercio, i Galoas o Myénés del basso Ogooué, i Pahouins, bellicosi e vendicativi abitanti del Nord. Padre Libermann aveva dato un’indicazione precisa ai suoi figli Spiritani: formare un clero indigeno, formare sacerdoti africani sul loro territorio. Per questa ragione sorsero a Dakar, nel 1847, e nella capitale del Gabon, Libreville, nel 1861, due seminari minori della Congregazione dello Spirito Santo. Padre Jean-Baptiste Fauret fu nominato rettore di quest’ultimo e padre René Lefebvre suo assistente, nell’aprile 1931. Sotto la direzione di padre Fauret, don Marcel collabora con obbedienza, insegnando sia nel seminario minore che in quello maggiore per la preparazione di un clero autoctono. Tiene corsi di teologia dogmatica e di Sacra Scrittura; ma viene anche utilizzato come autista della missione, viste le sue competenze in fatto di motori, e diventa pure responsabile dell’economato della missione.

Padre Fauret testimonierà che Lefebvre era molto obbediente e docile, sempre sorridente, fermo nelle sue idee, molto amato dai suoi allievi, apprezzato dai padri, e aveva manifestato, fin dagli esordi della sua vita missionaria, un’inclinazione particolare alla formazione dei sacerdoti. Padre Fauret viene nominato superiore della missione di Lambaréné, mentre padre Lefebvre lo sostituisce nella direzione del seminario. Trovandosi di fronte alla sua prima importante assunzione di responsabilità (guidare quarantasette seminaristi e il noviziato dei fratelli indigeni), padre Marcel chiede preghiere ai suoi familiari. Fin da subito si pone al lavoro riorganizzando i locali e il regolamento e iniziando la costruzione di una cappella più ampia. A volte, a causa della stanchezza, ritaglia delle brevi pause di ristoro a Capo Esterias e Punta Owendo, zone ideali per le battute di pesca. Egli osserva i comportamenti di ciascun seminarista, anche nei momenti ricreativi come questi, e non esita, come mai farà, ad eliminare i soggetti che non manifestano la giusta predisposizione vocazionale oppure non compiono progressi nelle virtù necessarie a questo stato. Nel seminario degli Spiritani regna l’ordine: vita interiore, preghiera, confessioni regolari, ritiri. Rigore misto all’armonia e tutti se ne rallegrano. Egli sa trasmettere la «carità di Dio», fonte dello spirito apostolico. Per combattere l’ignoranza dà un efficace antidoto: la saggezza sovrannaturale, secondo il principio di padre Libermann: «Io appartengo a Dio, io sono per Dio – povero peccatore –. Dio è tutto, l’uomo è nulla». Uomo pratico, amante della risoluzione dei problemi, alla fine del 1934 installa il primo gruppo elettrogeno; tiene un corso sull’elettricità e con la meraviglia di tutti... accende la luce. L’anno successivo installa la prima postazione radio a onde corte, alimentata a batterie, inoltre riassesta la tipografia, gestendola al meglio, tanto da farne un’efficiente e redditizia attività. Il Vescovo del Gabon, monsignor Louis-Michel-François Tardy (1926-1947), Spiritano, passa da Tourcoing nell’estate del 1936 e nell’incontrare i genitori di padre Marcel confida loro la sua immensa fiducia nel valido collaboratore: «Tutto quel che fa è perfetto; sono tranquillo sapendo che è lui a dover prendere decisioni in mia assenza»6.

All’unanimità tutti riconoscono le capacità intellettuali, spirituali e organizzative del superiore del seminario: «Fermo, misurato, molto personale nei suoi apprezzamenti e nelle sue decisioni, notevole dal punto di vista dell’organizzazione e dell’equipaggiamento materiale»7.

Il 28 settembre 1935, padre Marcel pronuncia i voti perpetui in presenza di padre Defranould e nell’autunno del 1936 gli viene concessa una vacanza. Sceglie di andare a far visita alla sorella spiritana suor Marie-Gabriel, a Efok, in Camerun. Salpa dal porto di Owendo il 12 ottobre, diretto a Donguila, risale il Komo e, di fronte alle rapide non praticabili, cammina per i fangosi sentieri dove si incontrano gli elefanti. Un viaggio avventuroso nella savana: si arrampica sui Monti di Cristallo, si aggrappa ai rami e alle radici, attraversa boscaglie rigogliose di vegetazione e vaste praterie; supera fiumi utilizzando ponti precari e fluttuanti o piroghe e imbarcazioni di fortuna, chiamate «combo combo»; visita i villaggi, saluta i catechisti, celebra la Santa Messa, confessa, battezza, fa da arbitro nel dirimere le controversie della gente e soccorre i malati, anche i lebbrosi, come è possibile riscontrare nel documento Journal de voyage,scritto da Lefebvre fra l’ottobre e il dicembre di quell’anno. Di notte i mali si fanno sentire acutamente, come il mal di denti o i dolori al ventre e, a volte, è necessario abbandonare la capanna di sosta perché infestata, improvvisamente, dalle micidiali formiche rosse. Quando incontra i missionari, nelle diverse tappe, viene accolto a braccia aperte. Sono in molti a dire che «spira veramente bontà e santità»8.

Siamo ormai alla vigilia della Pasqua del 1938 e padre Marcel predica il ritiro preparatorio all’ordinazione sacerdotale per il prossimo 17 aprile. È il suo ultimo compito in seminario. Le linee guida degli esercizi spirituali che dirige si possono riassumere in sei punti:

1. Il vero zelo non esiste al di fuori dell’obbedienza.

2. Bisogna soprattutto amare la verità, vedervi veramente la salvezza delle anime.

3. Considerare sempre i fedeli dal punto di vista della giustificazione, cioè dello stato di grazia.

4. Non avere princìpi personali, ma princìpi di Nostro Signore e della Chiesa. Questa è la vera carità e non la carità alla maniera dei modernisti e dei liberali. «La carità è la verità in azione!».

5. Il Papa è il successore di Pietro, Cristo sulla terra, la roccia incrollabile, la luce del mondo.

6. Il Vescovo viene a visitare la missione: «Parliamogli delle nostre opere, chiediamogli consiglio».

Sei punti fermi e ricchissimi di significato che lascia in retaggio ai suoi allievi. Crisi al fegato e malaria, infatti, gli impediscono di proseguire il suo compito. Monsignor Tardy lo manda a riposare nella savana e lo nomina Superiore interinale a Ndjolé: doveva sostituire il superiore assente, padre Henri Neyrand, suo compagno di studi nel seminario di Santa Chiara a Roma. Arriva a Ndjolé nel maggio del 1938, con sé ha poche cose (i suoi libri, che lo avevano accompagnato da quando aveva lasciato Roma, li ha lasciati al seminario di Libreville): il breviario, il manuale del cristiano, il rosario, l’orologio e la biancheria personale.

Prende fin da subito il suo incarico con grande serietà e quindi decide di visitare l’enorme distretto: c’erano insediamenti di catechisti distanti fino a otto giorni di viaggio. Percorreva immensi spazi: da Lara ad Abanga, a Samkita, utilizzando piroghe su fiume oppure andando a piedi per sentieri impervi, aiutato dai suoi collaboratori per portare le provviste e la valigia-altare. Nei villaggi «i cristiani lo amavano, per la sua dolcezza, perché era come un angelo, non parlava mai molto, faceva ridere le persone»9. Non era semplice, per i catechisti, seguire i loro protetti, poiché si trattava di popolazioni abbastanza nomadi. Padre Lefebvre perfezionò la conoscenza della lingua fang e arrivò a parlarla benissimo, «era già fang come un fang»10. Per sostenere i catechisti nella loro evangelizzazione, che si dimostrava assai difficile a causa della presenza dei protestanti, egli distribuì un opuscolo dal titolo in fang Ollé lang, che significa Tutti possono leggerlo; in esso era contenuta la spiegazione di come «Lutero avesse derubato la Bibbia e fosse andato a fare personalmente la sua Chiesa»11.

Era estremamente pericoloso essere catechista da quelle parti, con uomini capaci di lasciare il proprio villaggio, la propria regione e con la famiglia rischiare la vita per l’evangelizzazione. Ogni cantone aveva il suo capo catechista. Dirà, anni dopo, monsignor Lefebvre di aver conosciuto catechisti che morirono avvelenati, a causa del loro spirito missionario, dei martiri, insomma, che non potranno mai avere un riconoscimento in terra. Quando ritornava dalle sue visite nei villaggi scriveva sui registri i sacramenti che aveva somministrato e compilava lo schedario dello Status animarum, lo Stato delle anime. Era l’agosto del 1938 quando ricevette la notizia della morte alla terra di sua madre: era spirata il 12 luglio, ma le notizie dall’Europa erano tardive. Gabrielle Lefebvre aveva lavorato nell’ufficio dell’azienda familiare fino all’ultimo. Venne ricoverata in ospedale il 7 luglio e cinque giorni dopo, ricevuta la comunione e benedicendo con un grande segno della croce i cinque figli lontani, disse ai tre più giovani: «Non sono santa Teresa del Bambino Gesù, ma quel che mi domanderete io l’otterrò per voi e – rivolgendosi all’amato consorte – anche per te, René». Nella mattina aveva, invece, riferito al fratello Felix: «Lo sai, vado in Cielo. Sono chiamata in Paradiso». Alle cinque del pomeriggio del 12 luglio fece le ultime raccomandazioni ai figli: «Ponete il buon Dio al di sopra di ogni cosa della terra» e, recitate le preghiere degli agonizzanti dai suoi cari, ebbe: «Uno sguardo magnifico, come se vedesse qualche cosa d’impossibile a descrivere e verso cui si sentiva attirata, perché sembrava che si sollevasse dal letto»12. Spirò così, nella certezza di aver compiuto il suo dovere nel mondo e di essere attesa da Chi l’aveva chiamata all’esistenza. 

 


Cristina Siccardi - Mons. Marcel Lefebvre. Nel nome della Verità - cap. 10


1 Gv 20, 21.

2 Mc 16, 15.

3 C. Siccardi, Vivere e narrare la missione. Gian Paola Mina, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, pp. 62-63.

4 Ibidem, p. 199.

5 Ibidem, pp. 199-200.

6 Mio fratello Mons. Marcel, ricordi di M. Marie-Christiane Lefebvre, n. speciale 131 bis de «La Cloche d’Écône», 25 marzo 1996, p. 10.

7 Testimonianza di Padre Berger,in P. J.-J. Marziac, Monseigneur Lefebvre, soleil levant ou couchant?, NEL 1979, I, p. 91.

8 B. Tissier de Mallerais, Mons. Marcel Lefebvre. Una vita, Tabula Fati, Chieti 2005, p. 125.

9 Ibidem, p. 130.

10 Ibidem.

11 Ibidem.

12 Signor René Lefebvre, lettere al figlio René, 23 e 28 luglio 1938.