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Mons. Lefebvre ai suoi seminaristi: il significato profondo della talare

San Giovanni Crisostomo (344/354-407), secondo Patriarca di Costantinopoli e uno dei trentatré Dottori della Chiesa, ha molto riflettuto sul valore della dignità sacerdotale, dignità che, nel tempo contemporaneo, è andata svilendosi, a causa di quella volontà di mischiare il sacro con il profano, di confondere i preti con il mondo e le sue questioni pratiche, politiche e sociali, perdendo così la reale identità del sacerdozio.

Il padre della Chiesa, nativo di Antiochia, ha elaborato, in maniera efficace ed esaustiva, le ragioni e gli effetti dell’ordinazione presbiteriale, chiarendo, ieri, come oggi, il significato della nobiltà sacerdotale, giungendo ad affermare che il ministero pastorale è la miglior prova d’amore a Cristo. Si tratta di un’impresa riservata a pochi eletti e proprio questo concetto di elezione determina turbamento e rigetto, in una civiltà intrisa di liberalismo ed egualitarismo.

Spiega, nell’opera Sul sacerdozio, san Giovanni Crisostomo all’amico Basilio: «Dunque dubiterai ancora che io non t’abbia felicemente ingannato, mentre stai per esser posto a capo di tutti gli interessi di Dio e compiere quelle opere. [...] Dice infatti: “Pietro, mi ami tu più di costoro? Pascola le mie pecore”. Poteva per altro dirgli: “Se mi ami, pratica il digiuno, il sonno su nuda terra, le vigilie ininterrotte, assumi la difesa degli oppressi, sii come padre agli orfani e come marito alle madri loro”; invece, lasciando da parte tutte queste cose, che dice? Pascola le mie pecore. E per vero le altre opere che sopra ho dette, possono compierle agevolmente anche molti fra i sudditi, non solo uomini, ma donne ancora».

Monsignor Lefebvre insiste sempre sull’immenso valore presbiteriale, in quanto è proprio Gesù che i futuri sacerdoti dovranno rappresentare, proprio Gesù che dovranno predicare, portare il Suo esempio nel mondo e non quello di altri ed è proprio di Lui che «il mondo ha tanto bisogno» (Omelia, Écône, 2 febbraio 1977). Dunque la responsabilità è enorme, perché, con l’ordinazione, si cesserà di essere le persone di prima e, proprio perché l’uomo vecchio muore consegnandosi al nuovo «abito», occorre essere non solo interiormente cambiati, ma anche esteriormente, dando segno visibile della nuova identità acquisita: essendo la vocazione sacerdotale, per sua natura precipua, missionaria, occorre manifestare pubblicamente e al mondo la propria nuova identità, ecco, allora, l’importanza della talare nera, nera perché si è morti al mondo. Decisamente significativa è la lettera, datata 11 febbraio 1963, nella festa di Nostra Signora di Lourdes, che Monsignor Lefebvre scrisse ai «Mes chers confrères» della congregazione dello Spirito Santo a riguardo della talare. In essa si evince tutto il significato che acquista la divisa di chi ha scelto la strada di e per Dio:

«Le misure prese da un certo numero di vescovi nei diversi Paesi circa l’abito ecclesiastico meritano qualche riflessione perché possono avere delle conseguenze non indifferenti. Di per sé l’uso della talare o del clergyman ha senso solo nella misura in cui questo abito segna una distinzione rispetto all’abito secolare. Ciò non è soltanto una questione di decenza. Inoltre, il clergyman mostra una certa austerità e discrezione, figuriamoci la talare».

L’abito è manifestazione visibile del distacco dalle vanità di questo mondo e il superiore della congregazione insiste su tale aspetto perché è il segno distintivo del sacerdote o del religioso:

«allo stesso modo dei militari, degli agenti di polizia o del traffico. Questa idea si manifesta in tutte le religioni. Il capo religioso è facilmente riconoscibile per la sua divisa, spesso dal suo seguito. I fedeli attribuiscono grande importanza a questo marchio distintivo. [...] Il sentimento molto legittimo dei fedeli è in particolare il rispetto del sacro e in più il desiderio di ricevere le benedizioni del cielo, in tutte le legittime occasioni, da parte di coloro che ne sono i ministri. Di fatto, il clergyman fino ad ora sembrava essere la divisa che designava una persona consacrata a Dio, ma con il minimo di distinzione visibile, soprattutto nei Paesi dove questo abito corrisponde esattamente a quello di un laico. [...] La talare del prete raggiunge questi due obiettivi in maniera chiara e senza equivoci: il prete è nel Mondo senza essere del Mondo, egli si distingue da tutti i viventi, ed egli è inoltre protetto dal male. Io non vi chiedo di toglierli dal mondo ma che voi LI PRESERVIATE DAL MALE, perché essi non sono del mondo, come io non lo sono più (Gv 17,15-16)».

Il clergyman non è adatto allo scopo, in quanto ricalca l’abito utilizzato dai pastori protestanti ed utilizzabile anche dai laici. Qui Monsignor Lefebvre dimostra tutta la sua apertura intellettuale e culturale e tutta l’indifferenza che il cattolico deve nutrire nei confronti dei mezzi materiali, purché buoni ed efficaci. Egli non contesta la possibilità di un mutamento della divisa del sacerdote, purché il nuovo abito abbia la medesima efficacia del precedente nel distinguere l’ordinato dal laico e, quindi, nel preservare e difendere il prete dalle insidie del mondo, oltre ad agevolarne l’apostolato, con il perenne richiamo ai fedeli. Il problema del clergyman risiede nella finalità del mutamento: si vuole avvicinare il prete cattolico al pastore protestante e, quindi, favorire la sua laicizzazione. Dunque è evidente che l’opposizione non è legata ad una questione estetica e neppure di decenza, ma ad una importante questione dottrinale, vale a dire al ribadimento del carattere sacro che il sacramento dell’ordine imprime al sacerdote.

Quanto all’eliminazione di ogni specifico abito per il prete, essa cancella tutte le distinzioni, rendendo compiuta l’omologazione visiva del sacerdote con il laico, ossia la sua laicizzazione; aumenta, quindi, le difficoltà dell’apostolato e diminuisce le difese del prete nei confronti del mondo. È evidente che tale mutamento è dettato dal misconoscimento e dal disprezzo della condizione sacerdotale, condizione di cui vergognarsi al punto da nasconderla.

[...] Affermerà Lefebvre nel 1979 [ai seminaristi, ndr]: «Per il fatto stesso di vestire la talare, il mondo si aspetterà che voi siate degli altri Cristi, che manifestiate la luce di Nostro Signore nelle vostre parole, nei vostri comportamenti, nei vostri gesti, nelle vostre azioni. E i fedeli avranno ragione: voi dovrete essere degli altri Cristi, voi dovrete essere il sale della terra, la luce del mondo» (Omelia, Écône, 2 febbraio 1979). Invitava i suoi seminaristi a fare in modo che gli studi, che tutta l’atmosfera del seminario fossero fonte di luce, di carità. Ecco il gaudio nel constatare che si è stati prescelti e pertanto la realizzazione di sé diventa praticamente d’obbligo quando ci si rende conto di far parte di un disegno immenso:

«Che gioia, che grazia essere stati scelti da Nostro Signore Gesù Cristo in questi tempi di tenebre per ricevere la luce! Voi avete appena ricevuto il cero che è il segno, il simbolo della luce che è Nostro Signore Gesù Cristo. Conservate preziosamente questa fiaccola, mantenete nelle vostre anime la luce della verità» (Omelia, Écône, 2 febbraio 1985).

La talare costituisce una sorta di clausura, di romitaggio perché l’anima, una volta diventati sacerdoti, deve e può (con la grazia di Dio accolta e amata dal sacerdote) essere separata dal mondo perché «morto ad ogni amore e ad ogni stima del secolo». Quando un seminarista viene ordinato il gaudio viene esternato nella magnificenza del rito che la Chiesa tramanda, un rito che viene dal Cielo e trasporta nel Cielo. Monsignor Lefebvre non disgiunge mai la realtà terrena da quella ultraterrena, cala sempre la dimensione trascendente in quella immanente e con grande naturalezza illustra ad allievi e non le meraviglie del felice stato sacerdotale: liberati dagli imbrogli e fastidi del mondo e dai desideri del secolo, «da ogni accecamento spirituale e umano», come recita il Pontificale romanum (ammonimento della tonsura), e, quindi, dalla sottomissione del peccato e di Satana, ci si può avvalere finalmente della luce di Dio. Se così non avvenisse, allora, si perderebbe anche il senso comune, l’intelligenza pura e semplice e davvero sensata della realtà, della verità, come accade ogni giorno sotto i nostri occhi abbacinati da false o parziali verità terrene.

Mentre, quando Fede e Ragione si sposano, la Verità si palesa e la grazia la illumina, colmando vuoti e inquietudini; in questo felice matrimonio deve essere, però, essenziale la presenza di un testimone: la Tradizione della Chiesa. Essa è la garanzia per non sbagliare: dogmi e dottrina da lei tutelati non rischiano di essere in pericolo. Le difficoltà sfumano per poi scomparire del tutto e, quando si «riesce a scorgere la verità di fondo, allora, con la gioia nel cuore, [si] può constatare che nulla nella nostra santa Fede è campato in aria. E di ciò sicuro, egli pure, quasi esplodendo in un grido di liberazione, potrà dire il suo: “Now I see”, ora ci vedo!». Ed è esattamente ciò che provò il cardinale John Henry Newman C.O. (1801-1890) quando a quarantacinque anni si convertì, avendo trovato il perfetto equilibrio tra Fede e ragione. Diventare sacerdoti significa rivestirsi del Signore Gesù, rivestirsi della Sua Legge, che è la Legge delle Beatitudini, dimostrando al mondo che «Nostro Signore non è venuto a insegnarci altro: è venuto a dirci che la vera vita non è quella di quaggiù, che la vera vita è nell’eternità» (Omelia, Écône, 2 febbraio 1975).

Tuttavia non bisogna mai dimenticare che la talare significa sacrificio, perché indossando l’abito si predica il Sacrificio di Cristo Gesù e proprio nel Sacrificio della Messa si trova la forza di essere dei veri e santi sacerdoti. Croce, altare, talare: tre segni distintivi del Santo Sacrificio, tre segni che se occultati fanno perdere i connotati del vero cristianesimo, dell’essere autentici sacerdoti. «Anche il mondo pagano che rifiuta Dio, che lotta contro Dio, aspetta da voi questa testimonianza; a maggior ragione i cristiani che hanno conservato la fede e che oggi sono smarriti. [...] Noi non abbiamo il diritto di sottrarre nulla al suo Regno» (M. Lefebvre, Santità e sacerdozio, Marietti). Il sacerdote non deve mai banalizzare il suo status né con gli atteggiamenti che adotta, né con il modo di vestirsi, né con le parole, come accade, purtroppo, da alcuni decenni. «[...] lo spirito di dissacrazione, di laicizzazione, di profanazione, che è comparso dopo il Concilio e anche prima del Concilio, è una cosa terribile» (M. Lefebvre, Santità e sacerdozio, Marietti). Il senso del sacro viene acquisito proprio in seminario e il chierico, nell’impostazione della Chiesa di sempre, deve vivere e praticare la santità, così come farà in seguito quando dovrà mantenere il patto di fedeltà stabilito con il Signore. 

 


Cristina Siccardi - Maestro in sacerdozio, La spiritualità di Mons. Marcel Lefebvre, cap. 8