Home / Archivio articoli ex sezione "Attualità" / Archivio anno 2017 / Bernanos contro i robot. Ossia il progresso come apocalisse

Bernanos contro i robot. Ossia il progresso come apocalisse

Nel 1944 Georges Bernanos, il tormentato scrittore cattolico (il suo capolavoro è il Diario di un curato di campagna) pubblica una  furibonda raccolta di invettive contro la società industriale.  Vista la data, è dir  poco definirlo profetico fin dal titolo: “La France contre le robots”.  Gridava ai contemporanei di diffidare del benessere  promesso dalle industrie di massa, liberatrici dei poveri: “Ci sarà sempre più da guadagnare a soddisfare i vizi dell’uomo che i suoi bisogni”. E’ un’agghiacciante verità che  possiamo comprendere noi, 70 anni dopo, nell’epoca del Viagra, delle droghe “ricreative”, dei gay pride, del diritto al piacere, e della pornografia di massa.

Un giorno – annunziò – si getteranno nella rovina da un momento all’altro famiglie intere  perché a migliaia di chilometri di distanza potrà essere prodotta la stessa cosa a due centesimi in meno alla tonnellata”: come se avesse visto in una sfera di cristallo la globalizzazione, le delocalizzazioni feroci, le de-industrializzazioni d’Europa.

Adam Smith,  ha sancito in una celebre sentenza: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio, che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dal loro rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Noi ci rivolgiamo, non alla loro umanità ma al loro amor proprio, e non parliamo loro delle nostre necessità ma della loro convenienza.» L’illusione che dall’intreccio degli interessi ossia egoismi venga una società armoniosa grazie alla mano invisibile del mercato, è tuttora   un dogma creduto da molti.  Bernanos, con impressionante anticipazione, scrisse:

Non importa, si dicevano gli imbecilli, sappiamo bene che la cupidigia non è una virtù; ma il mondo non ha bisogno di virtù, esige confort – e la cupidigia senza freni dei mercanti finirà, grazie al gioco della concorrenza, per fornirgli questo confort a basso prezzo, a prezzo sempre più basso. […] Questi sciagurati  erano incapaci di  prevedere che niente avrebbe fermato le cupidigie scatenate, che avrebbero finito per disputarsi la clientela a colpi di cannone: “Compra o muori!”.   

Quegli imbecilli, rincarava Bernanos, “non prevedevano nemmeno che non tarderebbe a venire il giorno in cui il calo dei prezzi, fosse pure degli oggetti indispensabili alla vita,  sarebbe considerato come un male maggiore  – per la semplice ragione  che un mondo nato dalla speculazione non può organizzarsi che per la speculazione.”

Un mondo dominato dalla Forza è abominevole, ma il mondo dominato  dal Numero è ignobile. La Forza presto o tardi fa sorgere dei rivoltosi, genera lo spirito di Rivolta, fa  degli eroi e dei Martiri. La tirannia abietta del Numero è un’infezione lenta che non ha  mai provocato questa febbre. Il Numero crea una società a sua immagine:  una società di esseri non già eguali, ma di equivalenti, riconoscibili solo dalle impronte digitali” –  come fece a vedere  70 anni prima la nostra società di omologati,  di  copie conformi intercambiabili, e in più passivamente incapaci di rivolta verso le oligarchie  che li asserviscono?

E  con che precisione ci dipinge, noi suoi posteri: “Inchiodato a se stesso dall’egoismo, l’individuo non appare più  che come una quantità trascurabile, sottomessa alle leggi dei grandi numeri […] grazie  alla conoscenza delle leggi che li reggono. Così il progresso non è più nell’uomo, è nella tecnica, nel perfezionamento dei metodi capaci di permettere un utilizzo ogni giorno più efficace del materiale umano”.

Ahimé, il modo rischia di perdere la libertà, di perderla irreparabilmente, per non aver conservato l’abitudine ad usarla…”: questo nel 1944.  L’Unione Europea,  orwelliana  prigione dei popoli  consenzienti, non  era nemmeno al più lontano orizzonte.

Quando la fede cattolica ci rendeva in anticipo sui tempi

Ed ecco l’esattissima previsione sulla immane perdita di identità e culture degli europei,  che allora non era immaginabile: “La civiltà delle macchine non ha per niente bisogno della nostra lingua. La nostra lingua è il fiore e il frutto d’una civiltà  assolutamente differente dalla civiltà delle macchine. Inutile disturbare Rabelais, Montaigne, Pascal [noi: Dante, Ariosto, Machiavelli] per esprimere una concezione sommaria della vita, il cui carattere sommario costituisce precisamente  la sua efficienza. La lingua francese [italiana]  è un’opera d’arte, e la civiltà delle macchine non ha bisogno per i suoi uomini d’affare, come per i suoi diplomatici, che di uno utensile, niente di più”.

Da dove sorgeva in George Bernanos una così acuta preveggenza – anzi chiaroveggenza – della rovina che oggi incombe su di noi? Salta in mente una sentenza di Chesterton, altro credente senza complessi: “Questo è il prezzo che pago in nome del cattolicesimo, e cioè il fatto che è sempre in anticipo sui tempi”.

Ahimé, oggi la Chiesa “progressista” è regolarmente in ritardo culturale sulle mode ideologiche (El Papa ha appena tenuto un incontro terzomondista, invocando terra ai contadini e diritti ai popoli indigeni, un po’ di teologia della liberazione…)  ed è incapace di leggere i segni dei tempi, anche i più incombenti. Se ha ragione Chesterton, anche noi siamo meno chiaroveggenti nella misura in cui la nostra fede cattolica è posticcia, un abito esterno anziché una  spada affondata nel cuore.

Quella che ci resta è tuttavia sufficiente a renderci delle Cassandre derise. Ci rimane infatti ancora una briciola della coscienza che Bernanos espresse nel ’44 con impressionante nettezza.

Non si capisce assolutamente niente della civiltà moderna se non si ammette fin dal principio che è una cospirazione universale contro ogni specie di vita interiore”.  Georges Bernanos, La France contre les robots (1944).

E forse si deve a questo chiaroveggente cristiano (ancor letto e studiato) se nella Francia ridotta a quel che è, restano ancora coscienze della deriva sempre più  maligna delle “conquiste”  del presente.  Escono libri intitolati appunto “Apocalisse del Progresso”, dove Pierre de la Coste, giornalista che è stato ghost writer di vari ministri,  pone questioni come: “Dagli Ogm a Chernobil, dalla schedatura digitale della popolazione a Fukushima – è venuto il momento di dirsi che il Progresso, come moto ineluttabile dell’Umanità verso il Bene, ed  è stato forse una religione di sostituzione, è diventato oggi un incubo”.

Escono saggi intitolati “La Sregolazione morale dell’Occidente”, dove il filosofo Philippe Bénéton denuncia “quello che è il pensiero coltivato dall’Unione Europea dagli anni 2000: ciò che unisce gli europei,  sono solo le regole che implicano i diritti dell’uomo e della “concorrenza libera e non falsata”. Ma così, a ciò che fu una civiltà comune si impone una tabula rasa.

L’idea burocratica è naturalmente  che le identità e differenze culturali e storiche debbano essere omogeneizzate perché ostacolerebbero, poniamo, l’accoglienza verso i  musulmani immigrati; e per giunta, le masse si vogliono “emancipate  dai tabù” religiosi ossia morali.  Ma attenzione, denuncia il filosofo, “la democrazia liberale prende un senso nuovo; diventa una semplice meccanica, si definisce unicamente per le procedure”, le regole invece dei valori. Ma “in un mondo dove le procedure regnano e le virtù svaniscono in  nome del relativismo dei valori, gli attori non si sentono “tenuti”. Sicchè  la  crisi morale tocca la politica  come tocca i media, l’economia, la scienza, i rapporti quotidiani...”.

Questi europei dell’ultima ora che si vantano della propria “liberazione” morale, “a ciascuno i suoi valori, ogni individuo è libero e sovrano, viva la libertà, abbasso il vecchio ordine morale – e poi si indignano perché il politico ruba,  il capitalista froda i salari de localizzando, il giornalista pubblica notizie false a pagamento per la Cia – ma non sono anche loro degli individui “liberati”?  Se il vecchio ordine morale è schernito e  demitizzato, la conseguenza politica e sociale non può essere che quella. La violazione di “regole” e procedure, dopotutto, non valori.

Ma  ancor peggio, in questo relativismo di massa si è infiltrato un moralismo di massa, ipocrita e non riconosciuto, e ferocemente censorio: “la modernità tardiva vuol definire la buona e cattiva maniera di vivere”. Il “Male” e la “colpa” non sono scomparsi, si incarnano nelle parole e negli atti accusati, a torto o ragione, di razzismo, di sessismo, di xenofobia, di omofobia… queste nuove regole puntano alla divisione morale dell’umanità: da una parte gli araldi di una società aperta, avanzata, i progressisti,  le femministe, i ‘gay’ –  dall’altra a i retrogradi, quelli del vecchio mondo, i partigiani di una società “chiusa” e “tribale”, i custodi del vecchio ordine morale,  gli ultra-conservatori, i reazionari, i populisti, gli xenofobi:  in breve, è la divisione tra gli amici e i nemici dell’umanità.  Questa visione manichea non è certo in favore della libertà.

E fa un esempio, Béneton:

Se uno dice in un dibattito tv: “il populismo è il pericolo principale del nostro tempo”, non sarà interrotto, né richiesto di spiegarsi sulle sue intenzioni.  Se invece uno dichiara: “populismo è una parola incerta e mal definita, inventata dagli Importanti per indicare, con la sua connotazione peggiorativa, che non è bene criticare gli Importanti”, chi parla viene bombardato di sospetti sulla sua intenzione: sareste anche voi populista? Reazionario? L’opinione corretta funziona in questo modo: non discutete mai, accusate.  Il nostro  tempo che  tanto denuncia “il moralismo”,  non fa altro che moralizzare  continuamente.  La messa sotto accusa della persona sostituisce il dibattito delle idee: “Ah, lei cade nell’omofobia, lei fa’ il gioco del conservatorismo, lei nutre ancora dei pregiudizi!”. In breve, il  fondo del dibattito non viene più trattato, non c’è più  un dibattito  ma un accusatore e un accusato, un tribunale e un reo”.

Da noi in Italia, nulla di questa coscienza  del Progresso come apocalisse. Solo progressisti censori alla Boldrini.

 

Maurizio Blondet (maurizioblondet.it)