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La decentralizzazione della Chiesa offende la fede e il senso comune

Papa Francesco ha annunciato, il 17 ottobre 2015, come si concluderà il Sinodo sulla famiglia. A pochi giorni dalla fine dei lavori l’assemblea dei vescovi è giunta ad un impasse  e la strada per uscirne, secondo il Papa sarebbe quella della decentralizzazione della Chiesa (http://vaticaninsider.lastampa.it/documenti/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-44026/).

L’impasse nasce dalla divisione tra coloro che in aula richiamano con fermezza il Magistero perenne sul matrimonio e quei “novatores” che vorrebbero ribaltare , duemila anni di insegnamento della Chiesa, ma soprattutto la Verità del Vangelo. E’ infatti Parola di Cristo, legge divina e naturale, che il matrimonio valido, rato e consumato, dei battezzati non può essere, per nessuna ragione al mondo, sciolto da alcuno

Una sola eccezione annullerebbe il valore assoluto e universale di questa legge e se cadesse questa legge, crollerebbe con essa tutto l’edificio morale della Chiesa. Il matrimonio o è indissolubile o non lo è e non si può ammettere una dissociazione tra l’enunciazione del principio e la sua applicazione nella pratica. Tra il pensiero e le parole e tra le parole e i fatti, la Chiesa esige una radicale coerenza, la stessa che testimoniarono i Martiri nel corso della storia.

Il principio secondo cui la dottrina non cambia, ma muta la sua applicazione pastorale, introduce un cuneo tra due dimensioni inseparabili del Cristianesimo: Verità e Vita. La separazione tra dottrina e prassi non proviene dalla dottrina cattolica, ma dalla filosofia hegeliana e marxista, che capovolge l’assioma tradizionale secondo cui agere sequitur esse. L’azione, nella prospettiva dei novatori, precede l’essere e lo condiziona, l’esperienza non vive la verità ma la crea. E’ questo il senso del discorso tenuto dal cardinale Christoph Schönborn commemorando il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo, lo stesso giorno in cui ha parlato papa Francesco (http://vaticaninsider.lastampa.it/documenti/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-44028/). “La fede non può essere rappresentata ma solo testimoniata”, ha affermato l’arcivescovo di Vienna, ribadendo il primato della “testimonianza” sulla dottrina. Martire, in greco, significa testimone, ma per i martiri testimoniare significava vivere la verità, mentre per i novatori significa tradirla, reinventandola nell’esperienza.

Il primato della prassi pastorale sulla dottrina è destinato ad avere queste catastrofiche conseguenze:

1) Il Sinodo “virtuale”, come già accadde per il Concilio Vaticano II, è destinato a prevalere su quello reale. Il messaggio mediatico che accompagnerà le conclusioni dei lavori è più importante del contenuto dei documenti. La Relatio sulla prima parte dell’Instrumentum Laboris del Circulus Anglicus afferma con chiarezza la necessità di questa rivoluzione del linguaggio: “Like Vatican II, this Synod needs to be a language-event, which is more than cosmetic”.

2) Il post-sinodo è più importante del sinodo, perché ne rappresenta la auto-realizzazione.  Il Sinodo infatti, affiderà la realizzazione dei suoi obiettivi alla prassi pastorale. Se ciò che si trasforma non è la dottrina, ma la pastorale, questo cambiamento non può avvenire nel Sinodo, deve avvenire nella vita quotidiana del popolo cristiano e dunque fuori del Sinodo, dopo il Sinodo, nella vita delle diocesi e delle parrocchie della Chiesa.

3) la auto-realizzazione del Sinodo avviene all’insegna della esperienza delle chiese particolari, ossia  della decentralizzazione  ecclesiastica. La decentralizzazione autorizza le chiese locali a sperimentare una pluralità di esperienze pastorali. Ma se non esiste un’unica prassi coerente con l’unica dottrina, vuol dire che ne esistono molte e tutte meritevoli di essere sperimentate. I protagonisti di questa Rivoluzione nella prassi, saranno dunque i vescovi, i parroci, le conferenze episcopali, le comunità locali, ognuno secondo la propria libertà e creatività.

Si delinea l’ipotesi di una Chiesa a “due velocità” (two-speed Church) o, sempre per usare il linguaggio degli eurocrati di Bruxelles, a “geometria variabile” (variable geometry). Di fronte al medesimo problema morale ci si regolerà in maniera diversa, secondo l’etica della situazione. Alla chiesa dei “cattolici adulti”, di lingua germanica, appartenenti al “primo mondo” sarà permessa la “marcia veloce” della “testimonianza missionaria”; alla chiesa dei cattolici “sotto-sviluppati”, africani o polacchi, appartenenti alle chiese del secondo o terzo mondo, sarà concessa la “marcia lenta” dell’attaccamento alle proprie tradizioni

Roma resterebbe sullo sfondo, priva di reale autorità, con una sola funzione di “impulso carismatico”. La Chiesa sarebbe de-vaticanizzata, o meglio, de-romanizzata. Alla Chiesa romanocentrica si vuole sostituire una Chiesa policentrica o poliedrica. L’immagine del poliedro è stata usata spesso da papa Francesco. “Il poliedro – ha affermato –  è una unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità. E’ in questa strada che noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo col nome teologico di ecumenismo: cerchiamo di far sì che questa diversità sia più armonizzata dallo Spirito Santo e diventi unità” (Discorso ai pentecostali di Caserta il 28 luglio 2014). Il trasferimento di poteri alle conferenze episcopali è già previsto da un passo della “Evangelii Gaudium”, che le concepisca come”soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria” (n. 32). Ora Papa Francesco enuncia questo “principio di sinodalità” come risultato finale dell’assemblea in corso.

Le antiche eresie del gallicanesimo e del nazionalismo ecclesiastico riaffiorano all’orizzonte. E’ dogma di fede infatti, promulgato dal Concilio Vaticano I, il primato di giurisdizione del Sommo Pontefice, in cui risiede la suprema autorità della Chiesa, su tutti i Pastori e su tutti i fedeli, indipendentemente da ogni altro potere. Questo principio costituisce la garanzia dell’unità della Chiesa: unità di governo, unità di fede, unità di sacramenti. La decentralizzazione è una perdita di unità che conduce inevitabilmente allo scisma. Lo scisma è infatti la rottura che inesorabilmente avviene quando manca un punto di riferimento centrale, un criterio unitario, sia sul piano della dottrina che su quello della disciplina e della pastorale. Le Chiese particolari, divise sulla prassi, ma anche sulla dottrina che dalla prassi deriva, sono fatalmente destinate ad entrare in contrasto e a produrre fratture, scismi, eresie.

La decentralizzazione non incrina solo il Primato romano, ma nega il principio di non-contraddizione, secondo cui “uno stesso essere non può, allo stesso tempo e sotto lo stesso rapporto, essere ciò che è e non esserlo”. E’ solo in base a questo primo principio logico e metafisico che possiamo usare la nostra ragione e conoscere la realtà che ci circonda. 

Che cosa accade se il Romano Pontefice rinuncia, anche solo in parte, ad esercitare il suo potere per delegarlo alle Conferenze episcopali o ai singoli vescovi? Accade evidentemente che si crea una diversità di dottrina e di prassi tra conferenze episcopali e tra diocesi e diocesi. Ciò che in una diocesi sarà proibito sarà ammesso in un’altra e viceversa. Il convivente more uxorio potrà accostarsi al sacramento dell’Eucarestia in una diocesi e non in un’altra. Ma il peccato è o non è, la legge morale è uguale per tutti o non è. E delle due l’una: o il Papa ha il primato di giurisdizione e lo esercita, oppure qualcuno governa, nei fatti, al di fuori di lui.

Il Papa ammette l’esistenza di un sensus fidei, ma è proprio il sensus fidei dei vescovi, dei sacerdoti dei semplici laici, quello che oggi è scandalizzato dalle stravaganze che si sentono nell’aula del Sinodo. Queste stravaganze offendono il senso comune prima ancora che il sensus  Ecclesiae dei fedeli. Papa Francesco ha ragione quando afferma che lo Spirito Santo non assiste solo il Papa e i vescovi, ma tutti i fedeli (cfr. su questo punto Melchior Cano, De locis Theologicis (Lib. IV, cap. 3, 117I). Lo Spirito Santo però non è spirito di novità; guida la Chiesa, assistendo infallibilmente la sua Tradizione. Attraverso la fedeltà alla Tradizione, lo Spirito Santo parla ancora alle orecchie dei fedeli. E oggi, come ai tempi dell’arianesimo, possiamo dire con sant’Ilario: «Sanctiores aures plebis quam corda sacerdotum»“sono più sante le orecchie del popolo che i cuori dei sacerdoti”. (Contra Arianos, vel Auxentium, n. 6, in PL, 10, col. 613).

 

Roberto de Mattei  (Il Foglio)